04.12.08 – Gelmini, un futuro da Pivetti

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Il mio blog cambia “categoria”: si dilata, si apre all’extra movimento, e va a guardare anche a quanto accade fuori dell’Onda. Non tradisco certo la causa! Ma Scuola e Università mi stavano ormai un po’ strette; certo non sto per abbandonarle. Ci vivo dentro, dunque, non posso lasciarle, né allontanarmene più di tanto, sebbene intenda, da oggi, indagarle con sguardo più largo, ampliando gli orizzonti in cui il sistema scolastico si colloca. Del resto, ho scritto qui, in uno dei miei interventi precedenti, che questo movimento ha tutte le potenzialità per andar lontano proprio perché colloca la critica della scuola, dell’esistente, ma anche e soprattutto della proposta chiamata “riforma”, in un contesto assai più vasto, che è quello, in sostanza, della post-democrazia, o, se si preferisce, del tentativo in atto, e già largamente riuscito, di cancellare la sostanza della democrazia, lasciandone in piedi, come vani simulacri, le forme: non tutte, beninteso, ma quelle che si possono lasciare sopravvivere senza troppo pericolo per il nuovo zar e la sua corte di nani e ballerine, di avvocati e chirurghi plastici, di incompresi geni della finanza e di pennivendoli al servizio permanente della menzogna.
L’Onda ha individuato correttamente che la controparte non sono i docenti, come banalmente vogliono far credere i giornalai di regime, che la difesa della pubblicità del sistema scolastico si può fare solo se si individuano obiettivi che vanno al di là di questo. Ancora tre giorni or sono, i quotidiani offrivano uno spettacolo desolante.
Il «Giornale» della famiglia B, apriva con ben tre pagine (prima compresa) gridando agli sprechi nella scuola, e giacché c’era, sull’abbrivio, cercava di convincere i suoi complici lettori che di crisi nell’Italia berlusconiana parla solo la sinistra, e che siamo tutti (o quasi) agiati, se non proprio ricchi. Mentre sulla «Stampa» una deliziosa intervista di due intere pagine centrali metteva sulla graticola di Claudio Sabelli Fioretti la beata Gelmini. Mi ha fatto ancora una volta tenerezza, la cara nostra ministra. Ha raccontato, non comprendendo mai lo sfottò dell’intervistatore, un po’ di tutto, dalla simpatia del cavaliere, ai propri amori adolescenziali, e al fatto che anche lei “passava” i compiti (e qui un sentimento di solidale compassione mi ha preso per il malcapitato che ha ricevuto un suggerimento dalla Gelmini. Sarà stato sicuramente bocciato). E così via. Gli insulti che non la turbano più di tanto, le sue idee (che naturalmente non ha saputo spiegare) di rinnovamento della scuola e così via. Mi ha colpito la ripetitività ingessata delle sue risposte, che erano come lette, e in qualche modo potevano essere proferite a prescindere dalle domande. Uguali, insomma, agli ormai celebri interventi in sedi istituzionali. La povera martire ha dovuto imparare a memoria un bel po’ di frasi, e sciorinarle, con impavida temerarietà, ai suoi intervistatori, ai detrattori, e persino a coloro che si dichiarano dalla sua parte: «a prescindere».
E leggendo, e sfogliando le immagini di Maria Stella nelle diverse fasi della sua biografia, ho fatto un paragone mentale con un’altra donna entrata giovanissima in politica, e inopinatamente, nell’anno più disgraziato della storia italiana del Secondo dopoguerra, il 1994, ascesa al soglio della terza carica dello Stato. Sì, proprio lei: Irene Pivetti. Cattolica, protoleghista, leghista sanfedista (ma padana), eletta dalla destra presidente della Camera. Sappiamo com’è finita. Ma la sua rapida detronizzazione non significò un’uscita di scena. Un vero regno del bengodi le si spalancò davanti, dopo lo scioglimento anticipato della legislatura, nel 1996. Leghista transfuga, poi legata variamente ad alcuni dei figuri più squallidi della vita politica nazionale, da Mastella a Dini, giornalista di vane speranze, divenne impacciatissima conduttrice di show tv, e poi, via via, in una sequela imbarazzante di fallimenti, scoprì il diavolo sotto la croce vandeana che aveva ostentato alla Camera in quel discorso d’insediamento che produsse sugli astanti un senso angoscioso di spiazzamento spaziotemporale. Carlotta Corday era tornata! Mancava un Marat da assassinare, ma lei era pronta. Peccato che il gioco della presidenza le fosse stato tolto presto. Ma in fondo meglio così. Non le furono tolti gli emolumenti, non la pensione, non l’ufficio a Montecitorio, non l’auto di servizio con autista, non il telefono e i viaggi gratuiti… e altri simpatici benefits, che lei, tra annullamenti matrimoniali e nuove improbabili quanto sbandieratissime love stories è stata costretta ad integrare con le sue performances televisive. E, appunto, dopo tanti miserandi tentativi, dietro la scrivania, decise di saltarci sopra. E, imballata in tenute sadomaso che farebbero la gioia di Hannibal Lecter, grottesca scimmiottatrice di un sexy transgender, la pallida Irene si pose a fare la soubrette. E qui mi fermo, lasciando il resto all’immaginazione del lettore.
Scusandomi per questa digressione che vale se non altro a ricordarci che l’età dei diritti non ha mai sostituito l’età dei privilegi (e anzi, prepariamoci a vedere un ritorno in grande stile di questi ultimi), ho fantasticato per la Maria Stella una luminosa carriera alla Pivetti. Date tempo al tempo. Ce la ritroveremo in collants semitrasparenti, ma semiprotetta da un grembiulino che con il vedo/non vedo la renderà sicuramente più exciting della sua ex collega, a danzare in uno studio televisivo allestito come un’aula scolastica, saltellando tra i banchi, fra scolaretti rumoreggianti, inseguita da un preside infoiato, con i registri sottobraccio. Ma lei, irremovobile, con il gessetto segnerà diligentemente alla lavagna i buoni e i cattivi. I cattivi, cara ministra, sono qua. I cattivi maestri, eccoli.

Angelo d’Orsi



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