08.11.08 – Giro di boa
"Una goccia nell’Onda": il diario quotidiano dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.
Si respirava un’aria particolare, ieri, quasi straniante. I passanti ci osservavano con inspiegabile sorpresa; poliziotti e carabinieri erano come stupiti di vederci tutti lì. Non c’erano cartelli appesi in via Cavour, la gente non batteva le mani – anche se qualcuno, all’ora di pranzo, ci ha lanciato bibite e cioccolatini. Gli automobilisti suonavano il clacson, certo; ma non sempre per solidarietà.
Era tutto diverso. O almeno, lo sembrava. Dopo lo straordinario successo del 30 ottobre, un calo di partecipazione era prevedibile, naturale, fisiologico; e infatti è avvenuto. Ma non è questo il problema. Una certa stanchezza era scontata, incolpevole e ininfluente – tutto sommato. Ma non è questo il dato importante.
Il nuovo che si prospettava ad inizio settimana, si è ieri concretizzato. Dicono bene quei cronisti che hanno definito i nostri cortei "prove generali": lungi dal considerare giovedì scorso un punto d’arrivo, ma ritenendolo invece soprattutto una piattaforma da cui partire, siamo ancora preparando il gran debutto – che avverrà, probabilmente, il dodici dicembre, in occasione dello sciopero generale.
Una nuova fase si è aperta negli ultimi giorni, e la manifestazione, le manifestazioni di queste ore non hanno fatto altro che porvi il suggello. E’ una fase fatta di stabilizzazione della protesta, del suo inserimento nella quotidianità; una fase che si propone di testare periodicamente in piazza la validità di un lavoro più discreto, ma più solido, come quello portato avanti nei gruppi di studio. Una fase che ribadisce la nostra volontà di continuare nella lotta, ma allo stesso tempo ci invita a ragionare in maniera aperta su progetti a lungo raggio, e su più vasta scala.
Non interpreto negativamente la risposta tiepida della città alla vista dei nostri, soliti cartelli: un po’ è l’abitudine, un po’ anche la distaccata curiosità di sapere che faremo adesso; ma soprattutto – a mio parere – comincia ad essere la coscienza di un dubbio, la percezione che in quegli slogan non si nasconda solo la critica ad una legge, quanto un’immagine, una visione di società.
Bisogna far sì che la gente si appassioni alla nostra protesta come fosse la sua; anzi, bisogna farle capire che la nostra protesta è la sua, perché i nostri interessi sono comuni, la nostra vittoria sarebbe anche loro. Si tratta di reinventare il movimento per far sì che penetri in profondità, invadendo dal basso ogni cosa, ogni settore della vita sociale di questo paese. Non è un modo per continuare, proseguire nel solco già tracciato: dobbiamo ricominciare d’accapo, interamente, completamente, facendo tesoro delle esperienze vissute fin’ora per puntare, com’è giusto, in alto, al massimo, al miglior risultato possibile – senza accontentarci delle briciole proposte dal governo. E’ questo che ieri abbiamo visto, e che finalmente abbiamo capito.
Come in qualsiasi incipit, le aspettative sono tante, le certezze poche. E’ una fase molto delicata, che richiede grande tatto e grande attenzione da parte di ciascuno di noi. Il minimo scoramento potrebbe essere fatale. Ma il fatto di essere ancora qui, e di essere ancora in tanti, è la vera soddisfazione, l’unica cosa davvero rilevante, che valga la pena evidenziare.
Per concludere, voglio raccontare alcuni aneddoti relativi agli scontri avvenuti ad Ostiense.
Si è trattato di un evento, per certi versi, emblematico – anche se del tutto marginale, assolutamente nulla di eclatante, quasi inevitabile – oserei dire – dopo un mese di rapporti pressocché quotidiani con le forze dell’ordine. Quella piazza è stata, tuttavia, un riassunto perfetto degli umori e delle tendenze che abbiamo imparato a conoscere nelle ultime settimane. In mezzo a quella confusione, infatti, c’era tutto: c’era la spontaneità del gesto – se vogliamo un po’ ingenuo – degli studenti, che decidono lì per lì di entrare nella stazione per bloccare la viabilità; c’era la risposta repressiva del governo, che manda a protezione dei tornelli venti camionette stipate di poliziotti con ordini ambigui – la violenza degli agenti, infatti, è sembrata a molti immotivata, esagerata, quasi fuori luogo; c’era la volontà, da parte di alcuni, di scaldare gli animi – sono volati oggetti, è vero, ma chi li ha lanciati era ben lontano dal teatro dello scontro, al riparo, in tutta sicurezza; e la capacità, da parte di tutti, di freddare gli animi, non farsi coinvolgere, richiamare alla razionalità i presenti e riportare la calma – io stessa ho imposto ad alcuni di togliersi i caschi, anche se "solo per protezione", e le teste calde sono state poi isolate e allontanate. E c’era, infine, la complessità di tante piccole situazioni, molto più umane di quanto non sembri.
Arrivati al circo Massimo, io ed alcuni amici ci avviciniamo alle camionette della polizia per chiedere spiegazioni. Un agente sulla cinquantina, molto disponibile, ci spiega con serenità che loro non erano lì durante il tafferuglio, che sono stati chiamati dopo, e quindi non sanno dire; ma che anche i poliziotti hanno paura di fronte alla folla – sebbene disarmata; che la violenza può variare, e a volte è casuale, ma a volte sono gli ordini, e quelli non si discutono; che in fondo lui, personalmente, è dalla nostra parte – e ci augura una buona giornata.
Le parole che conosciamo, in effetti, non bastano più a descrivere situazioni come queste. Forse bisognerebbe inventarsene di nuove: forse solo così potremo raccontare, o anche solo pensare, quello che sarà.
Gaia Benzi
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