10.10.08 – Perquisizioni e diritto di cronaca

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A proposito di perquisizioni e sequestri subiti dai giornalisti dell’Espresso a causa dello loro inchiesta sulla diffusione dei rifiuti tossici in Campania, avevo promesso che avrei riportato qui alcune note di natura giudiziaria a proposito del diritto di cronaca. Il brano seguente fa parte di una interrogazione che sto preparando. Ho tolto quasi tutto ciò che riguarda la legislazione italiana e ho concentrato la parte sulla legislazione europea. Mi scuso per la relativa lunghezza, ma il lettore potrà giudicare in piena autonomia.

La Corte di Strasburgo, con sentenza 27 marzo 1996, muovendo dal principio che ad ogni giornalista deve essere riconosciuto il diritto di ricercare le notizie, ha ritenuto che “di tale diritto fosse logico e conseguente corollario anche il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche, fondando tale assunto sul presupposto che l’assenza di tale protezione potrebbe dissuadere le fonti non ufficiali dal fornire notizie importanti al giornalista, con la conseguenza che questi correrebbe il rischio di rimanere del tutto ignaro di informazioni che potrebbero rivestire un interesse generale per la collettività”. Questa sentenza della Corte di Strasburgo appare complementare di una sentenza (la n. 11/1968) della nostra Corte costituzionale: “Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai l’esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l’Ordine è chiamato a vigilare”.

Anche la nostra Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/1981, ha riconosciuto solennemente “l’esistenza di una vera e propria libertà di cronaca dei giornalisti (comprensiva dell’acquisizione delle notizie) e di un comune interesse all’informazione, quale risvolto passivo della libertà di manifestazione del pensiero”.

La Corte di Strasburgo, con la sentenza Roemen, 25 febbraio 2003 (Procedimento n. 51772/99) della quarta sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo interviene sulla liceità delle perquisizioni negli uffici dei giornalisti a tutela delle fonti. “La libertà d’espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, e le garanzie da concedere alla stampa rivestono un’importanza particolare. La protezione delle fonti giornalistiche è uno dei pilastri della libertà di stampa. L’assenza di una tale protezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall’aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni d’interesse generale. Di conseguenza, la stampa potrebbe essere meno in grado di svolgere il suo ruolo indispensabile di "cane da guardia" e il suo atteggiamento nel fornire informazioni precise e affidabili potrebbe risultare ridotto”. Giova ricordare la vicenda di Robert Roemen, che il 21 luglio 1998, pubblicava un articolo intitolato "Minister W. der Steuerhinterziehung überführt" ("Il ministro W. accusato di frode fiscale") sul quotidiano "Lëtzëbuerger Journal”, dove accusava un ministro lussemburghese di frode fiscale. A seguito delle perquisizioni ordinate per giungere all’identificazione della fonte, il giornalista ricorreva alla Corte di Strasburgo. Quest’ultima giudica che perquisizioni aventi per oggetto di scoprire la fonte di un giornalista costituiscono – anche se restano senza risultato – un’azione più grave dell’intimazione di divulgare l’identità della fonte. Infatti, gli inquirenti che, muniti di un mandato di perquisizione, sorprendono un giornalista nel suo luogo di lavoro, detengono poteri d’indagine estremamente ampi poiché, per definizione, possono accedere a tutta la documentazione in possesso del giornalista. La Corte, che non può fare altro se non rammentare che "i limiti definiti per la riservatezza delle fonti giornalistiche esigono da parte [sua] (…) l’esame più scrupoloso possibile", è quindi del parere che le perquisizioni effettuate presso il giornalista erano ancora più lesive nei confronti della protezione delle fonti di quelle adottate nel caso Goodwin.In considerazione di quanto precede la Corte giunge alla conclusione che il Governo non ha dimostrato che l’equilibrio degli interessi in oggetto, vale a dire, da un lato, la protezione delle fonti e, dall’altro, la prevenzione e repressione dei reati, sia stato salvaguardato. A tale scopo rammenta che "le considerazioni di cui devono tenere conto le istituzioni della Convenzione per esercitare il loro controllo nell’ambito del par. 2 dell’art.10 fanno pendere la bilancia degli interessi in oggetto in favore di quello della difesa della libertà di stampa in una società democratica".

La Corte di Strasburgo è intervenuta anche sulla pubblicazione di atti processuali coperti dal segreto istruttorio: con la sentenza Dupuis c. Francia, ricorso n. 1914/02, sentenza 7 giugno 2007 la Corte assolve due giornalisti francesi, rei di aver pubblicato materiale sottratto illegalmente dagli atti giudiziari (dichiarazioni rese al giudice istruttore e brogliacci di intercettazioni). Il Tribunale di Parigi decretò che il materiale utilizzato era in effetti documentazione agli atti del processo penale coperto dal segreto istruttorio e condannò i due giornalisti ad una pena pecuniaria.

Investita del caso, la Corte europea ha ritenuto sproporzionata la condanna. In particolare, la Corte ha ritenuto preminente l’interesse pubblico a conoscere quello che era stato un affare di stato, acquisendo certe informazioni – anche riguardanti il processo penale – sulle illegali intercettazioni subite da noti personaggi.

È legittimo – secondo i giudici europei – accordare una protezione particolare al segreto istruttorio, sia per assicurare la buona amministrazione della giustizia, sia per garantire il diritto alla tutela della presunzione d’innocenza delle persone oggetto d’indagine. Ma su queste esigenze prevale il diritto di informare, soprattutto quando si tratta di fatti che hanno raggiunto una certa notorietà tra la collettività. Inoltre, la Corte europea ha ribaltato l’onere della prova: non tocca ai giornalisti dimostrare che non hanno violato il segreto istruttorio, ma spetta alle autorità nazionali dimostrare in quale modo «la divulgazione di informazioni confidenziali può avere un’influenza negativa sulla presunzione di innocenza» di un indagato. In caso contrario, la protezione delle informazioni coperte da segreto non «è un imperativo preponderante». Ciò che conta è che i giornalisti agiscano in buona fede, fornendo dati esatti e informazioni precise e autentiche nel rispetto delle regole deontologiche della professione. Una bocciatura anche per le pene disposte dai tribunali nazionali. Secondo la Corte europea, infatti, la previsione di un’ammenda e l’affermazione della responsabilità civile dei giornalisti possono avere un effetto dissuasivo nell’esercizio di questa libertà, effetto che non viene meno anche nel caso di ammende relativamente moderate”. (Dupuis c. Francia, ricorso n. 1914/02, sentenza 7 giugno 2007; fonte: Marina Castellaneta in “Il Sole 24 Ore del 21 giugno 2007).

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il Belgio per la perquisizione della casa e dell’ufficio del giornalista Hans-Martin Tillack per violazione della libertà di espressione in seguito a perquisizioni effettuate contro il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche nell’ufficio di un corrispondente tedesco a Bruxelles.

Con la sentenza del 27 novembre 2007, la Corte ha chiarito che le perquisizioni "avevano
come scopo di svelare la provenienza delle fonti" e che pertanto rientravano "nel campo della protezione delle fonti giornalistiche". "In merito alla lamentata violazione dell’art. 10 della Cedu, la Corte europea ha affermato che il diritto dei giornalisti – si legge nella sentenza – di tacere le proprie fonti non deve essere considerato come un semplice privilegio che può loro essere tolto in funzione della liceità o non liceità delle fonti, ma costituisce parte della libertà di stampa e deve essere trattato con la massima attenzione, ancor più nel caso del ricorrente, dove gli indizi erano vaghi e fondati su voci non corroborate. In conclusione, la Corte ha considerato che, anche se i motivi dati dalle corti belghe erano "rilevanti", non potevano essere considerati "sufficienti" per giustificare le ricerche subite dal ricorrente, constatando pertanto la violazione dell’articolo 10".

Con la raccomandazione n° R (2000) 7, adottata l’8 marzo 2000, anche il Consiglio d’Europa ha voluto tutelare solennemente le fonti dei giornalisti, affermando: “Il diritto dei giornalisti di non rivelare le loro fonti fa parte integrante del loro diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 della Convenzione. L’articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, s’impone a tutti gli Stati contraenti. Vista l’importanza, per i media all’interno di una società democratica, della confidenzialità delle fonti dei giornalisti, è bene tuttavia che la legislazione nazionale assicuri una protezione accessibile, precisa e prevedibile. E’ nell’interesse dei giornalisti e delle loro fonti come in quello dei pubblici poteri disporre di norme legislative chiare e precise in materia. Queste norme dovrebbero ispirarsi all’articolo 10, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, oltre che alla presente Raccomandazione. Una protezione più estesa della confidenzialità delle fonti d’informazione dei giornalisti non è esclusa dalla Raccomandazione. Se un diritto alla non-divulgazione esiste, i giornalisti possono legittimamente rifiutare di divulgare delle informazioni identificanti una fonte senza esporsi alla denuncia della loro responsabilità sul piano civile o penale o a una qualunque pena cagionata da questo rifiuto”. Questa raccomandazione concorre a formare uno “spazio giuridico europeo”, che fa del segreto professionale dei giornalisti un caposaldo della libertà di stampa e del diritto dei cittadini all’informazione.

Del resto la tendenza espressa dalla Corte di Strasburgo (con le sentenze citate) trova ulteriore conferma e riscontro con le pronunce espresse al riguardo dallo stesso Parlamento Europeo, il quale – in una risoluzione del 18 gennaio 1994 sulla segretezza delle fonti d’informazione dei giornalisti – ha dichiarato che “il diritto alla segretezza delle fonti di informazioni dei giornalisti contribuisce in modo significativo a una migliore e più completa informazione dei cittadini e che tale diritto influisce di fatto anche sulla trasparenza del processo decisionale”. In sintesi il segreto professionale è indispensabile sia nello svolgimento della professione giornalistica che nell’esercizio del diritto di ogni cittadino a ricevere informazioni, mentre per contro le uniche eccezioni ammissibili devono essere ragionevoli e in ogni caso limitate, poiché “il mancato rispetto del segreto professionale limita in modo indiretto lo stesso diritto all’informazione”

La Sentenza 39/2008 della Corte costituzionale afferma che: “Gli Stati contraenti sono vincolati ad uniformarsi alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo dà delle norme della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’Uomo)”

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) rappresenta un meccanismo di protezione internazionale dei diritti dell’uomo particolarmente efficace. Le norme della Convenzione, nella interpretazione che ne dà soltanto la Corte di Strasburgo, sono di immediata operatività per gli Stati contraenti. L’articolo 10 della Convenzione afferma che “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità e senza riguardo alla nazionalità”. Il principio in base al quale ogni persona ha la libertà di “ricevere e comunicare informazioni” è alla base delle sentenze Goodwin, Roemen e Tillack sulla inviolabilità delle fonti dei giornalisti.

La Repubblica italiana ora deve assorbire nel suo ordinamento i principi fissati dalla Corte di Strasburgo, e la Corte costituzionale sul punto ha emesso tre sentenze (348/2007 e 349/2007; 39/2008) che vincolano la Repubblica Italiana ed i suoi magistrati ad uniformarsi alle sentenze di Strasburgo. Si legge nella sentenza 39/2008 (presidente Bile; relatore Amorante): “Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l’altro, che, con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell’ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi”. Le norme Cedu si collocano, quindi, come norme interposte, tra la Costituzione e le leggi di rango ordinario. Si può dire che sono norme sub-costituzionali.

«Le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, salvo quelle il cui contenuto sia da considerarsi così generico da non delineare specie sufficientemente puntualizzate, sono di immediata applicazione nel nostro Paese e vanno concretamente valutate nella loro incidenza sul più ampio complesso normativo che si è venuto a determinare in conseguenza del loro inserimento nell’ordinamento italiano; la ‘precettività’ in Italia delle norme della Convenzione consegue dal principio di adattamento del diritto italiano al diritto internazionale convenzionale per cui ove l’atto o il fatto normativo internazionale contenga il modello di un atto interno completo nei suoi elementi essenziali, tale cioè da poter senz’altro creare obblighi e diritti, l’adozione interna del modello di origine internazionale è automatica (adattamento automatico), ove invece l’atto internazionale non contenga detto modello le situazioni giuridiche interne da esso imposte abbisognano, per realizzarsi, di una specifica attività normativa dello Stato» (Cass., sez. un. pen., 23 novembre 1988; Parti in causa Polo Castro; Riviste: Cass. Pen., 1989, 1418, n. Bazzucchi; Riv. Giur. Polizia Locale, 1990, 59; Riv. internaz. diritti dell’uomo, 1990, 419).

Ribadiscono ancora i supremi giudici della prima sezione penale, che si pongono su di una linea di continuità con gli enunciati delle Sezioni unite penali del 1988: «Le norme della Convenzione europea, in quanto principi generali dell’ordinamento, godono di una particolare forma di resistenza nei confronti della legislazione nazionale posteriore» (Cass. pen., sez. I, 12 maggio 1993; Parti in causa Medrano; Riviste Cass. Pen., 1994, 440, n. Raimondi; Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848; Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, art. 86). La suprema magistratura civile è dello stesso avviso: «Le norme della Convenzione europea sui diritti dell’Uomo, nonché quelle del primo protocollo addizionale, int
rodotte nell’ordinamento italiano con l. 4 agosto 1955 n. 848, non sono dotate di efficacia meramente programmatica. Esse, infatti, impongono agli Stati contraenti, veri e propri obblighi giuridici immediatamente vincolanti, e, una volta introdotte nell’ordinamento statale interno, sono fonte di diritti ed obblighi per tutti i soggetti. E non può dubitarsi del fatto che le norme in questione – introdotte nello ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione, non possono ritenersi abrogate da successive disposizioni di legge interna, poiché esse derivano da una fonte riconducibile ad una competenza atipica e, come tali, sono insuscettibili di abrogazione o modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (Cass. civ., sez. I, 8 luglio 1998, n. 6672; Riviste: Riv. It. Dir. Pubbl. Comunitario, 1998, 1380, n. Marzanati; Giust. Civ., 1999, I, 498; Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848).

(Riferimenti legilsativi: Altalex, quotidiano di informazione giuridica, "segreto professionale e perquisizioni" di F. Abruzzo)

Pancho Pardi



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