11.12.08 – Lo svuotamento della democrazia
Università di Salerno. Che qualcuno chiama “Università di Fisciano”, dal nome della località dove è stato creato un enorme, desolato campus, dove migliaia di automobili assicurano la mobilità di docenti e buona parte del corpo discente. Il campus lo volle De Mita, e addirittura si cercò di piazzarlo in provincia di Avellino, o se la memoria non m’inganna di far cambiare la ragione amministrativa della località per piazzarla comunque sotto la provincia dell’“Onorevole”, uno dei tanti padri-padrini che hanno aduggiato per decenni il sistema politico italiano. Ebbene, in questo ateneo glorioso e ormai semiprostrato, scopro una vivacità insospettata. Colleghi attivissimi, coadiuvati e stimolati dai soliti RP (i miei ricercatori precari di cui ho tessuto le lodi sovente, qui), che cercano, tra inenarrabili difficoltà, di animare dibattiti, di inventarsi iniziative, di dar vita a piccole avventure culturali. E anche dalla visuale di un ateneo minore, “di provincia”, si può capire come al potere faccia paura un’università libera, pubblica e soprattutto capace, malgrado la ristrettezza dei mezzi, di produrre un sapere critico.
Davanti alle ultime, agghiaccianti esternazioni del nuovo duce, al quale si allineano, come soldatini di piombo, i suoi funzionari – parlamentari, ministri, sindaci e via enumerando – credo che tutti coloro che, dentro e fuori della vita universitaria e scolastica, facciano professione di teste pensanti, debbano riflettere ai processi in corso. Che, in Italia, ma anche fuori, sulla scena a noi esterna, di un mondo sviluppato che aveva basi democratiche (di origine liberale, o anche di origine socialista), si può indicare in una sola parola: postdemocrazia. Che non va intesa come un superamento (alla Hegel, per intenderci!) della democrazia, una forma di governo che nasca dalla tesi (democrazia) e attraverso l’antitesi (antidemocrazia) arrivi a una nuova forma, la sintesi postemocratica, appunto; no, qui siamo dinnanzi a un tragitto che va verso lo svuotamento della democrazia, il suo obnubilamento, la sua cancellazione di fatto, salvo restando le sue forme esteriori. Insomma, si terrà al massimo in vita il guscio, ma la sostanza sarà radicalmente modificata. Ecco il senso profondo della parola “riforma” che ogni giorno, in modo inquietante, dalla spazzatura di «Libero» fino alle paludate pagine del «Corriere della Sera», ci viene propinata in tutte le salse: la si giustifica, la si auspica, la si reclama, addirittura, e con urgenza. I Giavazzi dettano l’agenda politica, e i Tremonti/Brunetta la traducono in atti, di cui poi le diverse Gelmini diventano le maschere pronte a sorridere ai flash dei fotografi e anche a prendersi i doverosi, e inevitabili, insulti delle masse non ancora anestetizzate.
A Salerno – anzi in località Pellezzano, in una struttura conventuale, laicizzata, trasformata in centro di iniziative culturali, dove si è svolta una mezza giornata sul tema, patrocinata dalla Facoltà di Scienze Politiche – se ne è parlato un paio di giorni or sono. Il cavaliere di Arcore intanto ci fa sapere che lui va avanti, forte del consenso paradisiaco di cui gode, mostrando ancora una volta che, come ebbe a dire una volta, con lucida intuizione, Nanni Moretti, lui non è neppure contro la democrazia, ma è semplicemente estraneo ad essa. Nessuno gli ha mai spiegato di che si tratti. E dire che ha avuto e ha tuttora anche una robusta scorta di “professori”, dentro i suoi governi o all’interno delle sue maggioranze blindate. Ma è chiaro come il sole che la forza del denaro stravince su ogni altra: gli interessi battono alla grande i princìpi, o, sempre, accade il miracolo di vedere adattati i secondi ai primi.
Dunque, colui che ama autodefinirsi “capo del governo” (figura inventata da Alfredo Rocco per Benito Mussolini, tanto per precisare), dice, tranquillo, che con le opposizioni non perde tempo, non tratta, non discute, e procede diritto per la sua strada, o meglio quella che per lui e i suoi accoliti ha tracciato Licio Gelli, venerabile maestro della poco venerabile setta che mirava a destrutturare la democrazia italiana. E ci sta riuscendo, appunto con l’aiuto non solo grazie al nuovo duce, ma ai tanti opinion leaders che gli hanno preparato il terreno, e lo sostengono magari con qualche piccolo rabbuffo quando proprio fa cadere, rovinosamente, un pezzo della cristalleria.
Salvare le forme, cambiare la sostanza, questo il disegno di fondo; ma poiché l’uomo (il nuovo Unto del Signore) è rozzo, e ormai trascinato su una china pericolosissima dalla sua propria bramosia di potere e denaro, dalla convinzione di essere ormai onnipotente, ipotizza di spingersi oltre: ossia, cambiare le forme stesse. Il fascismo tenne in vigore, ibernandolo, ma senza toccarlo, lo Statuto albertino, risalente al 1848; diede vita a un regime totalitario – anche allora la complicità attiva e passiva di troppi intellettuali fu determinante – senza mettere le mani nella carta costituzionale; finora ho pensato che lo stesso intenda fare Berlusconi. Ora però forse comincio a ipotizzare che egli non si voglia accontentare della sostanza, ma, forte dei suoi sondaggi, voglia apporre il suo aureo sigillo anche sulla forma, ossia sulla nostra carta costituzionale, quella entrata in vigore esattamente un secolo dopo lo Statuto emanato da sua maestà Carlo Alberto, re di Sardegna.
Opino ciò, sulla base delle ultimissime parole dispensateci dal leader unico presentando l’ultimo libro (?!) di Bruno Vespa: una delle cerimonie canoniche della Seconda Repubblica, a cui nessun leader politico osa sottrarsi; come nessun intellettuale osa dire di no al suo salotto (io, però, ne conosco uno che quel no ha saputo dire…). Ebbene, il passaggio alla postdemocrazia, a furia di scellerate ferite inferte al corpo sociale, alle istituzioni, al tessuto culturale di questo sventuratissimo Paese, si sta attuando, giorno per giorno grazie a una economia finanziarizzata, a un mercato senza regole, che però aspetta il sostegno dello Stato quando sta per implodere, alla precarizzazione assoluto del lavoro, a un insieme di leggi elettorali di tipo plebiscitario, alla sostituzione generalizzata del principio della nomina a quello dell’elezione, a un tentativo sistematico di irreggimentare la magistratura, a un controllo sempre più ferreo dell’informazione e di tutto il comparto comunicazione, all’attacco ai servizi essenziali della cittadinanza (scuola, università, ricerca, trasporti, salute, sistema culturale…), in nome di falsi valori e di concezioni aberranti, che pretendono di trarre profitto da settori che devono invece costituire un irrinunciabile diritto generale, per tutti i cittadini; e alla privatizzazione non solo di aziende pubbliche importanti, ma di beni primari, a cominciare dall’acqua. Dimenticando che, come sanno bene gli analisti di politica internazionale, le guerre del futuro saranno soprattutto guerre per le risorse essenziali, a cominciare dall’acqua.
Ebbene, sì: il passaggio alla postdemocrazia è in corso, giorno dopo giorno, atto dopo atto, libro di Vepa dopo libro di Vespa, editoriale di Galli della Loggia dopo editoriale di Panebianco: proprio costui, recentissimamente, ha asserito che l’università non ha a che fare con la democrazia, e si spinge a sostenere la nomina invece dell’elezione delle figure che debbano guidare le università, ritornando ai tempi belli del Fascio, insomma, quando rettori e presidi erano nominati dal ministro (spesso dal duce per interposta persona). Mi permetto, dunque, di contraddirlo, recisamente, e con un sovrappiù di indignazione. La democrazia oggi ha molto a che fare con l&r
squo;università. E difendendo il carattere pubblico e libero, non funzionale al mercato, dell’università, l’Onda – nella sau accezione più vasta, comprendendo piccole iniziative come quella salernitana – sta difendendo non solo quella trincea, bensì la democrazia italiana, nella sostanza e nella forma della sua Carta costitutiva, ossia la Costituzione Repubblicana. La quale, guarda caso, riconosce, fin dai suoi primissimi articoli, come fondamentali, un pacchetto di diritti sociali per tutti i cittadini, impegnando lo Stato a rimuovere ogni ostacolo che ne impedisca il legittimo godimento. E tra questi diritti c’è il diritto all’istruzione. Il diritto alla cultura. Istruzione e cultura sono, innanzi tutto, se preservate nella loro libertà assoluta, e debbono essere, costruzione di responsabilità, disciplina del proprio io, coscienza del proprio ruolo, dei propri diritti e doveri, di membro di una collettività. Così la pensava Antonio Gramsci. Ma certo Panebianco non è gramsciano. E se lo fosse, dovrei cessare di esserlo io.
Angelo d’Orsi
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