1.12.08 – Finte aperture e tagli reali
Comincia un altro mese. E la rivolta non ha alcuna intenzione di placarsi. Anzi. Si diversifica, si ferma a Torino, per riprendere a Napoli, fa un passaggio al Centro Italia per ripartire dal Nord Est. Inventa forme e formule nuove. È imprevedibile e creativa. Ma non cede alla goliardia. Né si lascia irretire dalle suggestioni della violenza. E, soprattutto, mostra di crescere dentro: non tanto nelle forme organizzative, né nella sua capacità di coinvolgere altre fasce della popolazione scolastica e universitaria, bensì soprattutto nella sua maturazione interiore, nella capacità di analisi critica del mondo in cui i suoi soggetti vivono (istituti scolastici e atenei, appunto), nel saper mettere a fuoco il che cosa siamo e che cosa vogliamo. Gli ultimi “incidenti sul lavoro” che hanno portato lutti nelle scuole italiane, sono stati, da tale punto di vista, un incentivo alla concretezza, e, insieme, alla fermezza. Non è chi non veda che in una situazione di abbandono e degrado logistico, la politica criminale dei tagli indiscriminati, costituisca un mezzo politico per affermare che lo Stato disconosce ogni valore alla Scuola, e che essa è un peso morto di cui liberarsi, lasciandola marcire.
Intanto, il governo, supportato da una televisione a dir poco corriva, procede, incerto se fare come se niente fosse, oppure enfatizzare la sua buona volontà, la disposizione al dialogo con i contestatori, una volta che siano stati separati dai “facinorosi”. E in questa situazione, si va verso l’approvazione del pacchetto Gelmini, mentre il dibattito giornalistico e politico un po’ alla volta scema, e l’attenzione dell’opinione pubblica rischia di offuscarsi completamente. E, alla chetichella, gli incliti nostri governanti inanellano provvedimenti, un dietro l’altro: taluni enunciati come in accademici esercizi, talaltri minacciati, altri ancora posti davvero in atto. Come sempre, la tattica usata è di far circolare boatos clamorosi, che suscitino timori, e poi, davanti alle proteste previste e attuate da chi quei provvedimenti solo annunciati dovrebbe subire, essi vengono ritrattati, rimodulati, con una qualche riduzione del danno. E così mentre i protestanti possono cadere nella trappola e dichiararsi contenti del risultato ottenuto dalla loro azione di contrasto, il governo ostenta la sua apertura dialogica.
Ad ogni modo, le voci che stanno correndo sono preoccupanti. Innanzitutto, la norma inserita nel Decreto ora approvato al Senato, con modifiche, e in procinto di passare alla Camera, per cui si decurtano gli scatti di anzianità ai professori che per due anni non abbiano pubblicato e si inibisce loro la possibilità di essere commissari di concorso: norma stupida e vessatoria, che ignora che una pubblicazione scientifica può richiedere assai più di due anni di lavoro. Norma sbagliata perché, come ho già ricordato in questo blog, è assai bizzarro che si dimentichi che i professori non sono “ricercatori puri”, ma sono anche e, per i loro discenti-“clienti”, soprattutto, “insegnanti”. All’Università i giovani si iscrivono, e pagano tasse, e spendono in libri e corredi vari, e in affitti, e in mense, e in trasporti…, per quale scopo? Per apprendere, ossia ricevere insegnamenti; essi si sforzano di imparare dai loro docenti gli elementi costitutivi delle diverse discipline, i quadri generali, entro cui collocare le nozioni, per imparare a loro volta a insegnare, a fare ricerca, a produrre conoscenza e trasmetterle sotto le più svariate forme. Certo, un/a docente d’università deve far ricerca se non vuole diventare un mero espositore di manuali: qualcuno che si riduce al travaso di nozioni apprese in libri di seconda mano nelle teste dei suoi allievi. Ma la ricerca non è un pasto al fast food, e pubblicare tanto (lo dice autocriticamente uno che è colpevole di eccesso di pubblicazioni…), non sempre costituisce un titolo di merito. Esistono certo studiosi serissimi, quanto prolifici; ma molti dei maggiori esponenti delle varie aree disciplinari, specie di certune, procedono, per la natura stessa di quella materia, con grande lentezza. I filologi o gli archeologi possono essere veloci? Un neurologo che studia le malattie demielinizzanti, su cui si sa pochissimo, impegnato a raccogliere dati, paziente su paziente, caso per caso, può produrre ogni due anni un contributo scientifico (magari lo si pretende pure rilevante, naturalmente secondo i criteri dell’IF, in sedi riconosciute internazionalmente secondo i principi della peer review…)?
Oltre a questa norma, che dobbiamo augurarci venga cancellata, i rumors dicono che in certi atenei ci si sta brunettizzando; e per esempio si vogliono pensionare d’ufficio i ricercatori che abbiano un certo numero di anni di versamenti contributivi: dove colpisce l’idea che questi colleghi, che svolgono funzioni docenti a tutti gli effetti, ma contano assai meno delle altre due fasce docenti, nelle gerarchie accademiche, siano superflui, mentre sono fondamentali per reggere l’istituzione universitaria. E colpisce ancora più il fatto che stia passando la logica schiacciasassi tremontina. Questo è il pericolo: che si accolgano alcuni dei princìpi sciaguratissimi della “riforma”, in nome di distinguo pericolosi e autolesionistici. Chi pensa di guadagnare oggi qualcosa, nella politica del divide et impera che il governo sta mettendo in atto, perderà clamorosamente domani. E se non lo capisce per miopia, oggi, quando se ne accorgerà, sarà tardi.
Angelo d’Orsi
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