12.03.09 – L’omicidio dell’arte nella noncuranza italiana
Il diario dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.
[Errata corrige: L’Accademia di Belle Arti di Roma, contrariamente a quanto scritto, non impone agli studenti tasse oltre il 20% dello F.F.O.]
Quando, insieme agli altri, ho provato ad affrontare il problema dello stato dell’istruzione artistica in Italia, mi sono trovata davanti uno scenario a dir poco disastroso, oltre che intricato fino all’inverosimile: caterve di codicilli e circolari, leggi e decreti legge mai promulgati, ricorsi al Tar e sentenze del Consiglio di Stato hanno sommerso la mia scrivania, inghiottendo così la mia buona lena. Ciononostante, ho provato a tracciare un quadro generale della situazione, concentrandomi in particolare sulle Accademie di Belle Arti e tralasciando, per mancanza di tempo, gli altri istituti artistici. Nessuna pretesa, dunque, di esaurire in queste righe l’argomento trattato; ma nemmeno la rinuncia a fornire quei pochi riferimenti che, se correttamente interpretati, possono comunque dare un’idea del grave danno alla cultura italiana che si sta perpetrando nell’indifferenza generale.
Tutto inizia nel lontano 1999 quando, già riformata l’università secondo i dettami del processo di Bologna, il governo D’Alema decide di equiparare ad essa gli istituti A.F.A.M. – Alta Formazione Artistica e Musicale -, introducendo anche in questi i due livelli formativi che siamo abituati a conoscere come triennale e specialistica. La legge 508/99 determina, così, l’equipollenza fra titoli di studio universitari e accademici, e l’effettiva uguaglianza di Accademie e Conservatori alle altre istituzioni di formazione superiore. La definizione dei termini entro i quali tale uguaglianza e tale equipollenza si sarebbe strutturata è infine delegata ad ulteriori decreti attuativi del Ministero dell’Istruzione – interpellati il C.N.A.M. (Consiglio Nazionale di alta formazione Artistica e Musicale) e la VII Commissione della Camera (Commissione Cultura).
Sembrerebbe una legge giusta, volta finalmente a riconoscere alle competenze artistiche quel valore, in primo luogo culturale, che sempre era stato loro negato – ridotte, com’erano, a sapere di serie B. Sembrerebbe; probabilmente lo era. Peccato, però, che i decreti attuativi di cui sopra non siano più stati emanati.
Esatto: se ne sono letteralmente dimenticati. Da D’Alema in poi, tutti i governi si sono scordati di scrivere quei fondamentali decreti senza i quali le Accademie non possono né restare nella logica del vecchio ordinamento, né avviare quello nuovo senza trovarsi in una situazione di parziale illegalità.
Ed è così che, da ormai dieci anni, le Accademie riformate sopravvivono immerse in un desolante deserto normativo, vittime e a volte complici della più totale anarchia legislativa.
Le uniche cose che sono state sancite – grazie a due decreti attuativi del Presidente della Repubblica, uno del 2002, uno del 2005 – sono l’autonomia amministrativa e regolamentare, e i criteri generali per l’istituzione e l’attivazione dei corsi. Ma, a parte questo, è il nulla. Nemmeno la durata dei due livelli formativi è stata specificata.
Si è dunque dato il via ai corsi delle triennali e delle specialistiche – la prima è stata l’Accademia di Brera -, ma senza aver definito né i requisiti di qualificazione didattica, scientifica e artistica dei docenti e delle istituzioni – che quei corsi dovevano tenere e ospitare; né i requisiti di idoneità delle sedi – dove quei corsi si dovevano svolgere; né le procedure e le modalità per la programmazione dell’offerta didattica – che quei corsi include; né i criteri di valutazione delle attività degli istituti A.F.A.M. – che a quei corsi hanno dato il via; né le modalità di convenzionamento con altre istituzioni – dalle scuole alle università, ai privati; né le procedure per il reclutamento del personale, incluso quello tecnico-amministrativo. Ma, soprattutto, senza che i diplomi triennali e specialistici fossero equiparati di fatto ad un diploma di laurea: questo perché la 508 decreta sì l’equipollenza fra diplomi accademici e lauree, ma non specifica a quale laurea in particolare essi siano equipollenti. E senza questa specifica, quei diplomi restano a tutt’oggi carta straccia.
Così, quando un laureato alla specialistica sperimentale – condotta secondo i non-criteri di cui sopra – di una qualunque delle Accademie di Belle Arti italiane prova a partecipare ad un concorso pubblico, convinto che la 508 gli dia in questo senso piena legittimità, vede sistematicamente respinta la sua domanda; e in questo modo, poco gradevole, scopre che il pezzo di carta tanto sudato non vale nulla.
Ciò avviene perché le uniche lauree ancora valide sul piano legale sono quelle del vecchio ordinamento, la cosiddetta quadriennale. Ma – e qui la disattenzione ministeriale si intreccia indissolubilmente con la mala gestione dei dirigenti locali – le iscrizioni alla quadriennale, pur essendo assolutamente legittime, vengono spesso osteggiate dalle istituzioni accademiche, che invece spingono gli studenti verso i corsi di laurea "riformati", celando prudentemente la condizione d’illegalità e precarietà normativa degli stessi. Questa colpevole omissione non fa che aumentare l’ingiustizia subita dagli allievi. Come si dice in gergo: oltre al danno, anche la beffa.
Alle carenze normative va poi aggiunta la grave situazione economica delle Accademie, che sono molto spesso sull’orlo del collasso. L’Accademia di Belle Arti di Roma, ad esempio, come anche quella di Brera a Milano, sforano di gran lunga il tetto massimo imponibile alle tasse universitarie – che è del 20% rispetto al Fondo di Finanziamento Ordinario -, arrivando chiedere contributi agli studenti fino al 70% del bilancio totale. Tali contributi si sono resi necessari per avviare l’opera di riforma mai completata che ho sopra descritto. Anche qui, siamo in una situazione di pura illegalità. Se gli studenti volessero impugnare armi legali per opporsi a questa situazione, le Accademie in questione sarebbero costrette a dichiarare il fallimento.
Leggi inesistenti, fondi miseri, ambiguità nella gestione. Cos’altro manca? Eppure questa è solo la punta di un iceberg che si estende per chilometri e chilometri in tutta la penisola. Ogni Accademia, infatti, ha la sua storia di ricorsi al Tar e di battaglie in tribunale condotte molto spesso da ex-studenti, esasperati dalle follie dei loro Direttori, dei Consigli Accademici o d’Amministrazione.
Può capitare, infatti, di iscriversi al quadriennio e scoprire, a ridosso degli esami, che tale iscrizione non risulta affatto; oppure seguire un corso e non poter dare l’esame, perché l’esame non c’è – letteralmente: non esiste, non è previsto in calendario. Può capitare di iniziare a Febbraio un corso previsto per Novembre; può accadere che il calendario delle lezioni resti provvisorio per oltre tre mesi, con inversioni di rotta e stravolgimenti totali ogni due settimane. Può succedere di arrivare a lezione e scoprire che non ci sono né sedie, né tavoli, né cavalletti, né tele né colori né pennelli né tantomeno modelli da copiare. Può succedere di scoprire – come a Brera – che ai calchi in gesso in dotazione all’Accademia manchino dei pezzi, che il giorno prima magari c’erano: qualcuno se li è portati via. Del materiale ordinato può non arrivare, senza che nessuno alzi la voce o protesti; oppure può arrivare, essere consegnato, ricevuto e controfirmato e poi sparire, così, senza motivo. Possono verificarsi furti di costose apparecchiature elettroniche e la direzione alzare le spalle. Non ci sono soldi per ristrutturare corridoi, bagn
i e aule che cadono a pezzi – e con cadono a pezzi intendo proprio balaustre che si staccano e corrimano che restano fra le dita dello sfortunato passante; e quando i soldi ci sono e le strutture vengono rimesse a nuovo, può capitare che la direzione decida di non utilizzarle, impedendo l’accesso agli studenti per poi lasciarle vuote, inutili, morte.
Il Ministero dell’Istruzione può decidere di commissariare un’Accademia come quella di Brera, più volte citata in quest’articolo perché immersa in una gestione non malevola, bensì disastrosa, fallimentare da ogni punto di vista, una vera e propria avanguardia dello sfacelo culturale italiano; e poi affidare il commissariamento allo stesso Direttore – in pensione perché a mandato scaduto – che l’ha ridotta in queste condizioni, sull’orlo della bancarotta con fondi fantasma scomparsi chissà dove e per decisione di chissà chi.
E in tutto questo il Parlamento, il Governo, gli organi d’informazione e l’opinione pubblica posso restare indifferenti, e osservare l’arte morire lentamente di fianco a loro. Persino gli studenti sembrano aver perso le speranze, tale è il disinteresse generale per le sorti delle loro battaglie.
A nessuno importa della formazione artistica in questo paese; a nessuno, da anni. La politica non se ne ricorda nemmeno più: non la cita nelle leggi che emana, limitandosi a ricordare i precedenti interventi normativi, ancora incompleti senza un perché. Solo l’ex-ministro Mussi si era preso la briga di promettere un interesse futuro; ma poi il governo Prodi è caduto, e non se n’è fatto più niente. E la Gelmini? In tutto questo lei taglia, a casaccio, noncurante dell’importanza delle istituzioni che sta andando – con quei tagli – a distruggere definitivamente.
L’arte rappresenta un territorio libero, dove la mente umana può spaziare senza vincoli morali o logici, ragionando per assurdo, accumulando paradossi, sconfinando nel magico e nel mitico senza per questo allontanarsi dal reale; è uno spazio vivo, pieno di risorse, che attraverso l’elaborazione dell’emotività – singola e collettiva – apre la porta a nuove interpretazioni dell’individuo e della società. L’arte, inoltre, serba memoria delle ragioni degli sconfitti, e nel suo particolarissimo modo li include nella grande giostra della Storia, permettendo agli esclusi di ogni tempo e luogo di incontrarsi nelle pagine di un romanzo, nei riflessi di un quadro o nelle note di una sinfonia; e, allo stesso tempo, umanizza il male, rendendolo palese in ciascuno di noi.
Ha suscitato rivoluzioni e sedato rivolte, è stata braccio destro del potere e contro-potere attivo all’interno dei sistemi. Non ha patria e non ha padroni, parla una sola lingua, universale, e la forza dei suoi mezzi ha segnato per secoli il corso degli eventi.
Ma da un punto di vista pratico, molto meno aulico e molto più incisivo, cosa importa ormai allo Stato di quei quattro imbrattatele, di quegli scalpellini e di quel paio di incomprensibili strimpellatori jazz. L’arte è inutile, inefficiente, qualche volta pericolosa; meglio abolirla, chiaramente. Allo scoperto, comunque, non si può: cosa scriverebbero i giornali esteri? Come titolerebbero? "La patria di Michelangelo Buonarroti e Giuseppe Verdi cancella l’istruzione artistica e musicale"? Allo scoperto no, certo che no. Meglio lasciarla morire sola, allora, isolata, abbandonata alla propria incapacità cronica di sbrigliarsi da questa matassa senza alcun bandolo che l’è stata costruita attorno.
Il genio e la creatività italiana: che restino dov’è più comodo a tutti, nei libri di storia. Che il Bel Paese sia sempre più bello – ma solo in cartolina, che custodisca soltanto il peggio del proprio glorioso passato.
Gaia Benzi
(12 marzo 2009)
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