13.02.09 – La rivincita possibile
Il diario dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.
"Ormai è inutile nascondere la testa sotto la sabbia: la situazione in Italia è grave."
Questo il sunto dell’assemblea di mercoledì scorso, chiamata dagli studenti e partecipata da lavoratori e lavoratrici del settore scolastico, da precari delle superiori e da rappresentanti sindacali della Fiom e dei Cobas universitari, oltre che dal movimento territoriale contro la costruzione dell’inceneritore di Aprilia. Un’assemblea composita, dunque, nata col pretesto di una contestazione: quella a Tremonti, invitato per lunedì sedici febbraio dal rettore della Sapienza Luigi Frati a presentare il suo libro anti-crisi, "La paura e la speranza" – evento che però, ha fatto sapere il ministro poc’anzi, non si terrà, a causa di misteriosi impegni governativi.
Dico pretesto e leggo occasione, perché quelle tre ore di dibattito sono state così dense, così piene di rabbia e di voglie, così cariche di desideri troppo a lungo rimasti inespressi da travalicare completamente i motivi della convocazione, per sfociare invece in un’analisi tanto drastica quanto concreta della realtà attuale.
Ognuno dei partecipanti ha portato con sé i propri dilemmi, i propri problemi, il grado di repressione subito in questi mesi e le iniziative di lotta che ha saputo mettere in campo con colleghi e compagni; ma anche le proprie paure, le angosce, lo sguardo vivido con cui osserva il mondo e la determinazione a cambiarlo. Davvero.
Il rappresentante dei Cobas ha esordito citando lo slogan che i movimenti di base hanno adottato nell’ultima assemblea generale: "Marciare variegati, reagire uniti". Sottolineando la delicatezza della fase che questo paese attraversa oggi, ha dato corpo con le sue parole ad un dubbio inquietante: siamo sicuri che questa crisi porterà ad un rinnovamento positivo, ad un miglioramento del sistema in cui viviamo e di cui oggi siamo vittime? Dando retta alla Storia, le grandi crisi economiche – come quella del ’29, che spesso viene citata da giornalisti e politici per paragonarla a questa – non hanno determinato una svolta favorevole a democrazia e diritti; anzi: qui in Europa, si è vista la tendenza marcata a rifugiarsi nell’autoritarismo, fino ad arrivare alle derive nazi-fasciste di Italia e Germania. Premesso dunque quest’interrogativo, ha analizzato le politiche che il rettore Frati sta mettendo in atto all’interno dell’università e che, oltre a mirare alla normalizzazione del dissenso, colpiscono direttamente anche i diritti dei lavoratori. Ha così confermato l’idea, presente nell’esperienza di noi studenti, che Frati sia ormai, per il governo, sponda politica nel mondo accademico: in cambio di soldi, egli ha accettato di far diventare la Sapienza centro sperimentale della nuova repressione, fatta di "commissioni" speciali che decidono chi può e chi non può parlare, chi può e chi non può riunirsi, chi può e chi non può accedere alle aulee e agli spazi; fatta di "tecnici" incaricati di strappare i manifesti politici, intimidire i simpatizzanti del movimento, fare pressione su presidi e docenti affinché rientrino nei ranghi; fatta di ambigui inviti a rappresentanti del governo e della sua fazione politica, se non ai ministri stessi.
La compagna della Fiom ha invece spiegato in modo semplice – ma incisivo – l’importanza quasi simbolica dell’accordo firmato il ventidue gennaio da governo, Confindustria, Cisl e Uil: la crisi ha offerto alla classe politica l’opportunità di realizzare il progetto che da quindici anni tutti gli esecutivi stanno portando avanti, e che mira – sostanzialmente – ad annullare l’efficacia dei contratti nazionali, abbassando stipendi e rendendo i singoli più ricattabili e precari che mai. A farne le spese maggiori saranno inoltre le donne, già prese pesantemente di mira dalla cancellazione del divieto di consegnare dimissioni in bianco – una manna per quei datori che non sopportano la maternità – e del divieto di lavoro notturno in gravidanza; con l’innalzamento dell’età pensionabile a sessantacinque anni, poi, l’attacco subirebbe un’accelerazione potentissima. Un’aggressione indecente ai diritti basilari dei lavoratori, insomma, e per di più estranea alle regole democratiche e del buon senso: come si può realisticamente pensare di varare un protocollo sul rinnovo del contratto senza il maggior sindacato italiano? Come, se non ripudiandolo politicamente e calpestando tutto ciò che esso rappresenta?
La rete "Non rubateci il futuro" delle scuole primarie ha sottolineato il grande lavoro di sedimentazione che le mobilitazioni autunnali hanno prodotto. Stanno attuando, a livello nazionale, una fortissima resistenza legalitaria alla 133, spingendo i genitori a richiedere il massimo del tempo scuola per dimostrare alla ministra Gelmini che soldi e personale non sono un optional. Sebbene i sindacati scolastici non abbiano aderito alla manifestazione del tredici febbraio, hanno in programma una data di sciopero nazionale a marzo, quando gli effetti dei tagli si faranno sentire violenti in tutta Italia. Non si placano comunque le contestazioni: al ddl Aprea, per esempio, che completa l’opera iniziata dalla Gelmini distruggendo ogni democraticità negli istituti scolastici – trasformati in fondazioni di stampo familistico privato -, prevedendo cose come l’abolizione della libertà d’insegnamento in nome di una più ben vaga libertà didattica, modificando i parametri per il reclutamento dei docenti che sarà affidato quasi esclusivamente al dirigente scolastico. Anche il Coordinamento dei Precari della Scuola ha espresso la ferma determinazione a fare tutto il possibile affinché questa legge non passi e, qualora – molto probabilmente – passasse, a fare tutto il possibile per abrogarla.
Questi i contenuti degli interventi: terribili, angosciosi, frustranti. Ma i toni, i volti, le espressioni: erano quelle a infondere fiducia. Da tutte le parti le grida di indignazione erano le stesse. Ci si schierava contro l’autoritarismo sempre più evidente del premier, si paventavano gli effetti che potrebbe avere questo clima costante di attentato alla Costituzione, si evidenziavano gli episodi di repressione dilagante, dalle botte agli operai di Pomigliano d’Arco e dell’Innse a Milano, a quelle agli studenti di Padova durante un corteo anti-fascista. Tutti concordavano nel riconoscere la pregnante volontà dell’esecutivo e dei suoi proni sostenitori di distruggere cultura, diritti, dissenso, di precludere spazi e interferire con la vita, dalla culla alla tomba, come se fosse di sua proprietà.
C’era, negli occhi degli astanti, un guizzo lucido e brillante che fendeva l’aria; la voce incrinata dal fervore parlava di senso di responsabilità, della necessità di opporre a questa deriva una spinta uguale e contraria. Stupiva la voglia di radicalizzare l’opposizione sociale non più, ormai, per venia rivoluzionaria, ma per far capire a un popolo sedotto e abbandonato che essa c’è, che esiste, che non si ferma a fronte dei continui attacchi che le vengono mossi e non si fermerà, almeno non finché avrà forza di combattere ed andare avanti. Finalmente ascoltati, gli uomini e le donne che prendevano parola raccontavano con immensa passione delle innumerevoli lotte che non si sono mai concluse, sopravvissute al silenzio solo grazie alla nuda volontà di resistere. Nel flusso costante dei loro discorsi, s’imprimevano nelle mente le immagini forti che essi erano in grado di suscitare: come – per esempio – le file di genitori che intasano, stoicamente, le segreterie delle scuole, stando in piedi per ore, senza arrendersi; o i precari incatenati ai loro camper, di fronte al Ministero de
lla Pubblica Istruzione. Sembrava quasi di udire l’eco delle assemblee, delle riunioni, quegli importanti momenti di maturazione individuale e collettiva che sfuggono al clamore mediatico ma che hanno prodotto, nelle coscienze, il desiderio di unità: unità che si manifesti negli obiettivi e nelle rivendicazioni, nelle pratiche e nelle teorie; unità politica, dunque – sebbene non partitica.
Mercoledì ho assistito a quel salto di qualità che auspicavo e che sta cominciando ad emergere spontaneamente in molti di noi: quella spinta, cioè, capace di far muovere i singoli soggetti e i movimenti in modo compatto, che mantenga memoria delle tante anime che li compongono ma che sappia, al contempo, donare loro un sol corpo, affinché le scottanti e sacrosante questioni sociali sollevate in questi mesi possano trovare asilo in un panorama unitario, fatto di presupposti comuni: la difesa della democrazia, l’antifascismo, l’antirazzismo.
Ci si è chiesti, infine, se esista una possibile data comune – diversa dallo sfumato sedici febbraio, comunque prematuro – che, al di là degli scioperi e delle singole mobilitazioni, possa radunarci tutti in un unico luogo. E’ giunta quasi immediata la proposta di accogliere il venticinque aprile, giorno della liberazione dal nazifascismo, come emblema del percorso che dovremo costruire – e di cui la indetta da MicroMega per il ventun febbraio potrebbe essere una tappa importante.
Un venticinque aprile che quest’anno assumerà un valore diverso, e di cui è innegabile l’attualità e l’importanza. Un venticinque aprile che vivrà di nuove istanze – le nostre istanze, e della nuova, tenace resistenza che stiamo opponendo all’arroganza di questo potere che, come altri prima di lui, si svela per quello che é nei suoi proclami prima ancora che nei suoi gesti: avido e meschino, senza pietà né vergogna.
E se mai riuscissimo a costruire un momento collettivo di tale portata, credo proprio che l’Onda sarebbe lì, in prima fila, a manifestare per difendere i suoi diritti e riprendersi ciò che è suo, che è nostro. Così come manifesta – tredici febbraio – a fianco dei lavoratori e delle lavoratrici in sciopero; così come ha manifestato insieme ai migranti, ai precari, ai movimenti territoriali da ottobre ad oggi.
Così come continua a fare e come farà, senza nascondere la testa sotto la sabbia, finché la situazione in Italia resterà grave.
Gaia Benzi
(13 febbraio 2009)
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