15.11.08 – Oltre la soglia
"Una goccia nell’Onda": il diario quotidiano dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.
"Cosa potremmo fare più di quanto stiamo già facendo?"
E’ una domanda imbarazzante, eppure è stata posta. Mentre tornavamo alla Sapienza, stanchi ma felici – come sempre -, ballando sulle note di vecchie e nuove canzoni, gridando dal carretto che "stiamo già vincendo!", un pensiero terribile mi ha colta all’improvviso: e se non tutto ciò non dovesse accadere? Voglio dire: e se non vincessimo? Se perdessimo, nonostante e malgrado.
Abbiamo paralizzato la città – un’altra volta. Ci siamo imbottigliati nei vicoli del centro attorno alla Camera, come acqua che, fluida, dinamica, potente, aggira l’ostacolo e si riversa ovunque: più che un’onda, una cascata. I turisti ci fotografavano, i passanti ci incoraggiavano salutando e battendo le mani, i ristoratori impazzivano – probabilmente di gioia – alla vista della moltitudine in preda ai crampi per la fame. Abbiamo assediato il Senato e Montecitorio, contemporaneamente, con urla, colori, sfottò, abbiamo sbattuto in faccia ai politici i nostri numeri e la nostra determinazione. Siamo stati tanti, tantissimi – e che importa della guerra dei numeri fra questura e organizzatori; foto, video, testimoni bastano e avanzano a rendere giustizia. Siamo stati rumorosissimi. Abbiamo fatto il possibile; abbiamo dato tutto – un’altra volta, un’altra volta ancora.
E se non fosse sufficiente? Se non bastasse. Il governo tentenna, eppure dubito cederà mai: è diventata una questione di principio, un segnale di apertura democratica che non può assolutamente permettersi il lusso di dare. E la nostra lotta è sì anche propositiva; ma non ci può essere proposta, costruzione, prospettiva, senza il ritiro della legge contestata – è questo evidente, è un dato pratico, concreto. Corriamo dunque il rischio di parlare al vento? Di immaginare e creare per il solo gusto di dire: almeno proviamoci; poi, chissà. E anche fosse, sarebbe un dato totalmente negativo? O avrebbe in sé degli elementi validi oltre il contingente?
Che ne sarà di noi se non riusciremo a vincere questa battaglia? Si dice spesso che pensare al futuro non è il forte delle nuove generazioni. A mio parere si tratta di un pregiudizio inesatto, ma non completamente infondato. Il nostro non è un problema di capacità – che abbiamo in abbondanza -, bensì di possibilità. A che pro illudersi di avere una vita – e badate bene che non si parla di chissà che cosa, ma semplicemente di famiglia, mutuo, reddito, pensione, prole -, quando il desolante panorama italiano sappiamo già condurci su binari completamente diversi? A che pro, intendo, affrontare il travaglio straziante della disillusione, quando basterebbe non illudersi – ovvero, non pensarci affatto -, per sopravvivere in maniera dignitosa, quasi allegra, quasi felice, a questi cinque o più anni di studio?
Siamo abituati a vivere alla giornata, perché almeno nell’arco delle ventiquattr’ore riusciamo a dare un senso alle nostre azioni. Già interrogarsi – per me, ad esempio, studentessa di lettere classiche – sulla ragione che ci ha spinto a scegliere quel corso di laurea invece di un altro, comincia ad essere problematico. "Perché mi piace", è la risposta canonica – con le varie e personali precisazioni a latere. Ma se un interlocutore qualsiasi osasse spingersi sul terreno scosceso degli ambiti occupazionali, un sorriso mesto e stiracchiato si limiterebbe a biascicare: "Vedrò". Tacendo il corollario: "quel che trovo, prendo" – d’obbligo in molti casi.
Le aspirazioni ci sono, per carità! Ma anche i sogni più banali diventano bestemmie se formulati col futuro prossimo, e non con un più cauto condizionale. Persino quest’università malata sembra un’oasi di pace e serenità, se paragonata alla certezza dell’incertezza con cui siamo stati allevati. Gli esami sono riduttivi, i corsi asfissianti, i piani di studio irrazionali e i servizi pessimi? Non fa niente, non importa che non ci sia riconosciuta appieno la cultura accumulata in anni e anni di letture, va bene così; ma non toglieteci lo spazio vitale per essere – solo un momento – altro da questo sfacelo. Ora come ora, in questo misero angolo di libertà – privata, ovvio -, si può ancora vivere, respirare; dopo, inizieranno il declino, i problemi, le ansie. Ma dopo, appunto; non oggi.
Era così, fino a qualche settimana fa. Fino a un mese fa, questi erano i nostri margini, i limiti invalicabili che ci portavamo appresso. Ognuno nel suo cantuccio, pensavamo isolati le stesse cose, convinti che non ci fossero spazi per pensarle insieme. Ma adesso che la rivolta ci ha messo di fronte ai nostri diritti, alla possibilità che abbiamo di rivendicarli e addirittura di ottenerli – anche solo in parte -, non potremmo più tornare alle nostre case alienati come ieri. Sarebbe impossibile dimenticare l’onda, comunque vada a finire; sarebbe impossibile rassegnarsi di nuovo, davvero.
Lo spettro della depressione incombe su tutti noi con una pesantezza inusuale, spaventosa. Facile dire: "non ho paura del governo"; ma della sconfitta? Chi potrà mai essere tanto incosciente da non paventarla, almeno un pochino.
I toni melodrammatici di queste righe sembreranno forse ingiustificati ai più, visto lo straordinario successo della recente manifestazione. Ma non fatevi trarre in inganno: non è uno sterile sfogo, il mio. Quello che sto cercando di descrivere – con tutta l’evidente fatica che ciò comporta -, è la radice stessa del nostro coraggio.
Certo che abbiamo paura; ne abbiamo tantissima. Temiamo – come tutti coloro che si espongono, che rischiano – di scommettere sul cavallo sbagliato, di fallire miseramente, di ritrovarsi a stringere un pugno di mosche e tanta amarezza; temiamo la risacca tanto quanto chi ci sostiene e ci guarda dall’esterno. Ma abbiamo un’arma in più, rispetto agli altri, per superare le nostre incertezze e proseguire determinati per la nostra strada.
Quest’arma risiede proprio nel vuoto pneumatico in cui siamo immersi. Intorno a noi, è solo terra bruciata. Il passato si cela fra le rovine del presente, rendendo impossibile la nostalgia; il futuro ci sfugge, presentandosi rarefatto e volubile di fronte ai nostri occhi. Non possiamo tornare indietro, verso quella beata ignoranza che ci ha protetto e permesso di sopravvivere in tutti questi anni; ma non abbiamo nemmeno gli strumenti per andare avanti. Circondati dal nulla, è solo il nulla che rischiamo di perdere.
Anche per questo continueremo – nonostante e malgrado. Con l’assemblea nazionale e oltre, verso lo sciopero generale e chissà cos’altro ancora. Rimboccandoci le maniche per evitare di sopprimere quella punta di speranza che abbiamo, per evitare che sia schiacciata dall’angoscia. Perché ebbene sì, è vero, ci siamo cascati anche noi: abbiamo iniziato a sperare di poter cambiare – pur solo di poco – il nostro piccolo mondo.
E cosa potremmo fare di più, in fondo, già lo sappiamo: non fermarci e continuare a combattere. Ci sembra quasi impossibile aver vissuto tanto a lungo senza conoscerci e confrontarci, senza poter gridare insieme la nostra rabbia e la nostra gioia.
Gaia Benzi
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