16.01.09 – L’errore strategico di Israele
Due diritti a esistere a confronto. Il diritto di Israele a proteggere lo stato che ha già. Il diritto dei palestinesi ad uno stato che non hanno ancora. Il confronto è asimmetrico fin dall’inizio. Perché lo stato di Israele, per volontà dell’Onu, è fondato sulla terra sottratta ai palestinesi.
Su questo stato di fatto consolidato da una durata di più di mezzo secolo si è innestato un conflitto in cui ragioni e torti si sono mescolati da entrambe le parti. I paesi arabi hanno fomentato le rivolte palestinesi per poi abbandonarle nei momenti decisivi. Egitto e Siria hanno fatto la guerra a Israele. Israele ha risposto mostrando capacità di difesa risolutive, tanto da indurre l’Egitto a rinunciare alla guerra e anzi a esercitare nell’area il ruolo di interlocutore privilegiato.
Ma la colonizzazione dei territori occupati ha aumentato la diaspora palestinese. L’esigenza di sicurezza israeliana ha reso complementare la riduzione dei palestinesi a stranieri in patria.
La solidarietà araba verso i palestinesi è stata tutt’altro che continua e coerente. La strage di Settembre Nero da parte dei giordani ne è un esempio.
L’asimmetria e l’impotenza ha indotto gruppi palestinesi al terrorismo, e questo ha indotto Israele a rafforzare la durezza del proprio dominio. Nuovi insediamenti nei territori occupati, nuova diaspora, nuovo terrorismo, nuova repressione.
I sostenitori della causa di Israele e del suo diritto alla massima risolutezza armata poggiano le loro ragioni sulla sua natura di democrazia circondata e sulla sua necessità di salvaguardare lo stato e la democrazia dall’accerchiamento di stati non democratici e dalla irriducibile ostilità dei palestinesi.
I sostenitori della causa palestinese invocano il diritto irrinunciabile a un proprio paese e motivano il ricorso alla lotta e talvolta anche al terrorismo con la durezza delle condizioni imposte da Israele ai territori controllati e a quelli confinanti: inagibilità, impossibilità di un’economia normale, limitazioni intollerabili al soddisfacimento dei bisogni più elementari.
La democrazia israeliana ha dato alle voci dissidenti la libertà di proporre terra in cambio di pace (invito mai raccolto), ma ha anche permesso che, per mettere in crisi il governo, Sharon provocasse con la passeggiata sulla spianata delle moschee l’intifada più sanguinosa.
Dall’altra parte l’assenza di democrazia ha favorito l’involuzione corruttiva della classe dirigente storica di Fatah, che a poco a poco ha perso l’originario prestigio.
Nell’esercizio della propria difesa Israele ha incrinato la legittimità di quella stessa classe dirigente e ha contribuito a far emergere e poi vincere una nuova classe dirigente più radicale. Nell’affermazione di Hamas ha trovato i motivi per inasprire il controllo sui territori, anche con l’estensione di un mosaico di tessere separate da muri e posti di blocco che limitano in modo crescente l’agibilità dello spazio palestinese. Da parte sua, con la vittoria elettorale, Hamas ha radicalizzato lo scontro con Fatah, fino allo scontro militare e in qualche caso fino alla caccia all’uomo.
Sulla fase più recente del conflitto le accuse continuano a essere reciproche. I contendenti si rinfacciano la responsabilità dell’inizio delle ostilità: da una parte un territorio ritagliato, confinato e oppresso, dall’altra un territorio su cui piovono razzi. Ai razzi palestinesi rispondono i bombardamenti aerei israeliani. Infine l’invasione della striscia di Gaza come estremo mezzo per impedire il lancio di razzi. Qui lo scontro è impari, tale è la strapotenza militare israeliana.
La contabilità delle vittime dalle due parti è vistosamente sproporzionata. La responsabilità principale è di chi la produce, ma è impossibile non rilevare che Hamas tende a non curarsi troppo delle conseguenze del lancio dei razzi.
Ora cresce l’informazione di fonte internazionale e umanitaria sull’uso di armi speciali con specifiche funzioni antiuomo e dall’effetto disastroso, moltiplicato e reso odioso dalla mortalità infantile. La polemica sulle armi speciali ha qualcosa di strano: sarebbe preferibile essere ammazzati dal tritolo più che da bombe al tungsteno? In realtà non è difficile comprendere che la critica delle armi speciali vuole mettere in evidenza una speciale progettualità di morte: fanno testo le ultime bombe Dime, che tagliano a pezzi i corpi in un raggio di soli cinque, dieci metri e il cui involucro può essere modificato in vista di esiti letali differenziati. Una progettualità di morte che non fa alcun onore a chi la esercita.
Ma, visto che in guerra la morte è parte abituale della scena, forse maggior rilevanza sostanziale ha la teoria conclamata della necessità di eliminare Hamas. Non solo per l’indifferenza dei danni alla popolazione inferti per raggiungere l’obbiettivo specifico, con una quantità di stragi collaterali in teoria non necessarie e in realtà inevitabili. Ma per l’obbiettivo in sé: la decisione che un intero ceto dirigente (prima favorito dalla politica israeliana e poi da questa assunto come nemico finale) deve essere definitivamente eliminato.
Anche dal punto di vista del suo stesso interesse Israele compie un errore strategico. Sua è la forza maggiore. Giustifica il suo uso col fine di annichilire l’avversario. Ma nello stesso tempo umilia un popolo. Le conseguenze dell’umiliazione sono incalcolabili. E nelle vittime possono accrescere a dismisura il desiderio di vendetta. Voci razionali e riflessive da entrambe le parti hanno provato a scongiurare la crescita della guerra e dell’odio, ma non riescono a farsi ascoltare. La loro sconfitta rende impossibile intravedere la fine.
L’incombente esaurimento della speranza rende necessario l’intervento degli organismi internazionali per un effettivo cessate il fuoco e ancora più essenziale la capacità dell’Europa di svolgere un ruolo di persuasiva mediazione.
Pancho Pardi
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