19.12.08 – Uno spazio per la mente

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Il diario dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.

Malgrado le vacanze natalizie siano ormai alle porte, la nostra voglia d’incontrarci e di discutere non è venuta meno. Nel tentativo di tirare le fila del percorso che abbiamo fin qui costruito, nuove battaglie e nuovi obiettivi si profilano con forza; e più il lavoro all’interno delle facoltà si stabilizza e s’intensifica, più la consapevolezza di aver ancora molta strada da fare nella rivendicazione e nell’ideazione di un’università – una realtà – diversa, assume sostanza.
In particolare, sta prendendo corpo un discorso assai sentito sugli spazi, il loro utilizzo, il loro grado di accessibilità al pubblico.
Ad esempio di ciò, riporterei l’iniziativa indetta martedì da Lettere e Fisica: con la collaborazione degli addetti, per più di sei ore le biblioteche sono rimaste aperte oltre l’esiguo orario canonico, per protestare contro il definanziamento e il malfunzionamento delle stesse. Una giornata di studio collettivo, insomma, che ha avuto il merito di unire allo spirito che anima le vertenze nazionali dell’Onda – e qui mi riferisco ai documenti usciti fuori dall’assemblea del quindici e sedici novembre – il pragmatismo necessario per declinare tali vertenze in un contesto specifico, dove specifici sono i problemi e immediato il malessere.
Nell’immaginario collettivo un’università dovrebbe, senz’ombra di dubbio, essere imperniata sulle biblioteche, luogo simbolo del suo patrimonio culturale, spazio fisico dove i saperi e le esperienze accumulate nei secoli sono custoditi per essere tramandati alle generazioni future. Un posto, inoltre, dove gli studenti possono trovare silenzio, calma, la concentrazione necessaria per lo studio e gli stimoli indispensabili per la ricerca. Tutto ciò, in linea teorica; all’atto pratico, però, sembra esser vero il contrario.
Le biblioteche sono gestite come un magazzino di carta qualunque, privo di valore. Frequentemente sono sprovviste dei testi necessari per preparare gli esami, i libri vengono concessi in prestito solo ai laureandi, il materiale afferente ad uno stesso dipartimento è spesso sparso in varie biblioteche, costringendoci a irritanti spole dall’una all’altra. Ma, cosa più importante – o più grave – di tutte, la carenza di fondi per il personale fa sì che esse siano aperte al pubblico – leggasi: studenti – solo poche ore al giorno, cinque, quattro; in qualche caso, addirittura tre. Ho detto "pubblico" e sottolineato "studenti" perché è importante rendersi conto di come tale gestione danneggi soprattutto gli alunni, e non i docenti; i quali, da contratto, hanno copia delle chiavi della biblioteca del loro dipartimento, e possono quindi usufruirne quando e come vogliono.
Capita dunque di affacciarsi dall’oblò, porta serrata, e osservare con un groppo in gola il proprio professore che studia in un ambiente confortevole, con tutti gli strumenti a sua disposizione, mentre noi, buttati in qualche corridoio, sottolineiamo delle frasi qua e là col libro in bilico sulle cosce, pensando: "poi a casa farò meglio".
Tutto questo è incredibilmente ingiusto. Quegli spazi, quei luoghi, dovrebbero essere nostri – di diritto. E’ per noi che sono stati creati, è a noi che dovrebbero guardare. E invece ci vengono negati, e con essi la possibilità di un’istruzione serena e completa.
La giornata di martedì è stata intitolata: "Lasciateci studiare!". Ma potrebbe essere affiancata da altre, con slogan simili: "Lasciateci incontrare, lasciateci parlare, lasciateci pensare". Perché il discorso sugli spazi abbozzato dall’annosa questione delle biblioteche, si estende facilmente ad altri ambiti.
Dopo lo strappo avvenuto all’inaugurazione dell’anno accademico della Sapienza, il neo-rettore Frati ha deciso di attuare la linea dura contro gli occupanti. Posto che all’interno delle nostre strutture non vi sono luoghi dove gli studenti possano riunirsi liberamente; posto che le nostre occupazioni sono occupazioni cosiddette "aperte", ovvero coordinate in modo tale da consentire il regolare svolgimento delle lezioni; posto che, se anche quell’unica aula occupata dovesse servire ai nostri colleghi, noi la cederemmo – come abbiamo spesso fatto – per poi riprenderne possesso a fine lezione, perché il nostro intento non è quello di escludere gli studenti, ma di includerli, di coniugare protesta e normalità; ebbene, date queste fondamentali premesse, il nostro rettore ha deciso lo stesso di far sgomberare, anche con l’aiuto delle forze dell’ordine, quei minimi spazi che il movimento si è preso per poter sopravvivere. E ce l’ha comunicato con sibillini interventi in questa o quella facoltà, chiamando a rapporto questo o quel preside, questo o quel direttore di dipartimento: un metodo che, con un gentile eufemismo, definirei inelegante.
E se due mesi fa la difesa di quei luoghi sarebbe stata perpetrata per una questione di principio, oggi il principio c’entra solo in parte. E’ diventata una battaglia vitale per il mantenimento di un luogo non tanto fisico, quanto mentale, di incontro e di dibattito. Conquistando un’aula, e sfruttandola per conferenze, assemblee, workshop, ci siamo resi conto di quanto mancasse uno spazio, all’interno delle nostre vite, dove parlare liberamente col nostro linguaggio e i nostri tempi del mondo che ci circonda.
Perché non è lo stesso incontrarsi al pub e chiacchierare delle elezioni che incontrarsi in un’aula autogestita e parlarne all’interno di un paritetico confronto dialettico. Sono spazi di discussione, questi, dove i temi trattati sono quelli che ci interessano, che ci coinvolgono direttamente, dove si discute delle cose che per noi – e non per altri – sono importanti; e dove noi, in prima persona, siamo chiamati a formarci un’opinione per poi condividerla con l’assemblea, secondo regole non scritte di convivenza civile.
Le ore passate là dentro sono diventate, insomma, quasi delle "ore d’aria", dove riappropriaci di quella dimensione sociale che, da "animali politici", ci è propria e fa da collante alle singole, personali espressioni di sé. L’esperienza che ne abbiamo avuto e che continuiamo ad averne è quindi un’esperienza nuova, che non avremmo possibilità di fare altrove: l’intero paese è completamente privo di occasioni simili.
Guardatevi intorno, come abbiamo fatto noi; e ripensate voi stessi, come noi stiamo facendo. I problemi della stampa, della televisione, degli organi di informazione che, in uno stato progredito quale il nostro, fungono da nuova agorà, non sono problemi che ci dovrebbero interessare unicamente per una questione di principio, morale; sono problemi che ci riguardano personalmente, che dobbiamo affrontare perché ledono direttamente le nostre potenzialità di uomini e di donne. Non è solo un’imparziale lettura dei fatti che ci viene negata; è soprattutto la possibilità di affrontarli, quei fatti, la possibilità di parlarne, il nostro stesso diritto a riflettere e condividere i frutti delle nostre riflessioni in un luogo che sia pensato su misura per noi. Quando un autore, un giornalista, un comico viene censurato, non è solo l’autonoma espressione del singolo a venire meno: ci viene tolto uno spazio d’incontro collettivo, ci viene tolta la libertà di abitarlo.
Quale che sia l’obiettivo perseguito con la creazione di un luogo pubblico, è il suo carattere aperto a dover essere salvaguardato in prima istanza; ed è proprio questo carattere che la cultura politica attuale vuole negare, dal governo al parlamento, dagli opinionisti della carta stampata a quelli della critica televisiva, dai presidi di scuole all’antica
ai rettori di università. Così l’apertura di una biblioteca, l’occupazione di un’aula, la nascita di un tv via web, sono tutte azioni che rispondono ad una medesima esigenza.
Riprenderci ciò che è nostro, a cominciare da quegli spazi mentali necessari per criticare un presente abietto, per immaginare un futuro diverso, per confrontarci su come realizzarlo: questa una delle lotte che, da gennaio, l’Onda porterà con sé, bussando alle vostre porte.

Gaia Benzi

(19 dicembre 2008)



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