1968: dall’Isolotto al mondo, e ritorno
Sono molti i ’68. È gravemente scorretto e rozzamente superficiale ridurre, come fa molta parte della la cultura storiografica dominante, un imponente processo storico di trasformazione globale della società alla rivolta studentesca, considerata una folata velleitaria, contraddittoria e violenta, un conato o al massimo un sogno giovanile, senza passato e senza futuro. C’è ovviamente il ’68 degli studenti. Ma c’è anche il ’68 del movimento operaio, che inizia in quell’anno con lotte significative per esplodere l’anno successivo, e c’è il ’68 della psichiatria e della medicina alternativa, della magistratura, del mondo della scuola, del movimento femminista, del movimento conciliare nella Chiesa, perfino di un certo fermento democratico dentro la polizia. Tant’è vero che quando si tirano le somme della repressione giudiziaria del movimento complessivo del 1968-69, si trovano accomunati in decine di migliaia di denunce e processi studenti, operai, preti e laici, insegnanti, psichiatri, medici eccetera (1). La domanda che sorge è la seguente: c’è qualcosa che accomuna i molti ’68, un ethos, una spinta profonda, un orizzonte di senso?
Nel ’68 ho fatto anch’io molte scoperte, sostenuto dalle relazioni comunitarie (2); ma una mi sembra che possa in qualche modo racchiudere tutte le altre: la gestazione planetaria della speranza. La speranza è perennemente in gestazione, ma la sua manifestazione nella storia è apparsa finora in forma episodica e settoriale. Nel ’68 invece ci siamo trovati davanti a un fenomeno planetario e globale, una specie di eruzione vulcanica che esplodeva da una miriade di camini in ogni angolo del pianeta, coinvolgeva tutti i settori della società e portava in superficie dall’anima profonda dell’umanità un magma incandescente ricchissimo di elementi creativi, capace di produrre un balzo in avanti dell’evoluzione culturale della specie. Si tratta di un punto di vista relativo. Non pretendo di assolutizzarlo. Ho detto e sono convinto che «il» ’68 è in realltà «molti» ’68. Non intendo contraddirmi. Inoltre, non sottovaluto affatto le grandi contraddizioni che in quella congerie si sono manifestate, le quali possono offuscare un po’ il volto della speranza ma non annullarlo.
Le esperienze di cambiamento dal basso, che da anni stavamo portando avanti nel nostro piccolo spazio vitale, le scoprivamo condivise inconsapevolmente da realtà sociali diffuse in tutto il mondo. Nei mesi a cavallo fra il ’68 e il ’69 la vicenda vissuta dalla Comunità dell’Isolotto di Firenze ebbe risonanza mondiale. La piazza dell’Isolotto divenne un crocevia internazionale. Potemmo comunicare col mondo. Ed avemmo la consapevolezza che a livello universale stava nascendo una società basata su valori nuovi e al tempo stesso antichi: pace, solidarietà, primato della coscienza, dissenso creativo, diritti umani e sociali come diritti di tutti e di ognuno/a, centralità delle relazioni, «il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato», comunitarietà oltre i confini. L’utopia che da sempre aveva animato i sogni di «uomini e donne di buona volontà» si stava rivelando ormai come la più autentica razionalità e si incarnava in mille e mille percorsi di ricerca positiva diffusi in tutti gli angoli della terra. Finora era sembrato che fosse la paura a tenere unito il mondo sotto la cupola di fuoco della bomba. Ora invece vedevamo che la grande forza unificante a livello finalmente planetario era la speranza. Si rivelò per noi come l’ecografia di una gestazione.
E vennero le doglie del parto. Fu la conferma, se ce n’era bisogno, che la gestazione planetaria e globale della speranza era incombente. Il sistema mondiale del dominio si sentì scosso dalle fondamenta e scatenò il conflitto. Perché la speranza è la grande nemica del potere. Il quale si nutre di disperazione, paura, rassegnazione e sottomissione. Come la speranza nuova prendeva forma a livello mondiale, così anche la strategia per pianificarne l’aborto fu globale. Dietro la maschera dell’anticomunismo e con la scusa del confronto apocalittico fra i due grandi sistemi di dominio, fu messa in atto la strategia delle «guerre di bassa intensità», per uccidere la speranza e riportare sul trono l’inevitabile. E in Italia venne la repressione spietata ed esplosero le bombe in una sequenza tragica di stragi. E la strategia della tensione generò o comunque alimentò il terrorismo come propria immagine speculare. L’aborto sembrò cosa fatta.
Anche nella Chiesa il conflitto fu inevitabile. E risultò tremendo e tragico. Perché la gestazione della speranza si configurava come vera e propria rivoluzione del sistema ecclesiastico del sacro travasato dal medioevo nell’età moderna. Era stato il Concilio che aveva dato voce e forza a tale rivoluzione. I documenti conciliari infatti avevano sancito un germe di trasformazione radicale definito da un grande teologo conciliare, Marie-Dominique Chenu, «rivoluzione copernicana della Chiesa», in quanto poneva al centro non più la gerarchia ma il «popolo di Dio». Lì, in quel germe appena enunciato, si può individuare il succo stesso del Concilio. Non che i ministeri scomparissero. Solo che riacquistavano la loro funzione di servizio in una Chiesa vissuta come «comunità di comunità in cammino», fondata sul protagonismo, la dignità e i diritti delle persone e della loro fede, a cominciare dagli ultimi. Quando tale «rivoluzione copernicana» dall’enunciazione di principio nei documenti ufficiali fu trasferita nella pratica di vita ecclesiale dal proliferare di una quantità di esperienze di base, fece paura e fu osteggiata da un intreccio perverso, composto da massoneria piduista, servizi segreti, Gladio, neofascismo, mafia: quel medesimo intreccio che in Italia tentò di bloccare il processo democratico complessivo, ricorrendo a tutti i mezzi, compreso il terrore. Non sembri un’esagerazione. Quello che ho chiamato «intreccio perverso» esisteva realmente. È illuminante la valutazione dei giudici istruttori della strage di Bologna, Vito Zincani e Sergio Castaldo, contenuta nella sentenza-ordinanza dell’1-6-1986: «Si può legittimamente trarre la conclusione che si era costituito in Italia un potere invisibile il quale, essendo collegato al tempo stesso alla criminalità organizzata e al terrorismo, ad ambienti politico-militari, a settori dei servizi segreti, alla massoneria, e muovendosi contemporaneamente su questi piani, ha potuto conseguire una capacità di controllo incredibile sui meccanismi istituzionali fino a divenire un vero e proprio Stato nello Stato». L’esistenza di questo potere invisibile, che ho chiamato «intreccio perverso», l’abbiamo toccata con mano.
Riepilogo, per chi non la conosce, la nostra vicenda.
L’Isolotto è nato almeno due volte: una prima volta nel novembre 1954, quando furono consegnate le chiavi del lotto iniziale di circa mille alloggi di quella che era stata progettata come la prima «città satellite» nella piana a sud-ovest di Firenze, di fronte alle Cascine; la seconda nascita avviene nell’autunno 1969, quando la massa della popolazione dell’Isolotto, ingranditosi a dismisura e divenuto ormai davvero quasi una città dotata di identità propria e di vari aspetti di autonomia, partecipò, pur se con diversi livelli di consapevolezza e intensità, al processo di trasformazione della società destinato a cambiare nel profondo l
a cultura e i modi di vivere.
Ambedue le nascite, o meglio le due fasi di un unico processo di nascita, si collocano in momenti cruciali della trasformazione della società italiana e a tale trasformazione danno un contributo originale e incisivo.
Nel 1954, quando si verifica il primo atto di nascita dell’Isolotto, si era nel pieno della grande migrazione che in pochi anni cambierà volto alla penisola. Quando giunge l’onda della rivoluzione sociale del ’68, l’Isolotto è pronto a fare la sua parte. Non per motivi ideologici né per radicalismo parolaio e sognatore. Ma perché nei quindici anni di vita, dalla prima alla seconda nascita, ha percorso con serietà, gradualità, intensità profetica i sentieri impervi e faticosi della ricerca umanizzante in tutti i campi del vivere umano, nessuno escluso: dalla religione, all’etica, alla politica. La pubblicazione della Comunità dell’Isolotto, Isolotto 1954-69, edita da Laterza nel 1969, tradotta in molte lingue, documenta un tale impegno complessivo e graduale di riforma del vivere, passo dopo passo, senza avventurismi, e tuttavia con straordinaria linearità e coerenza. E tutto ciò in collegamento con i grandi processi di trasformazione che animavano la cultura, la stessa pastorale e la teologia europee.
Ma il contributo più incisivo questo quartiere fiorentino l’ha dato a partire dall’autunno di quell’anno fatidico. C’è una data, il 31 ottobre 1968 che per noi mantiene tutt’ora un notevole significato simbolico. Come un crinale, apre un orizzonte nuovo in cui si colloca la nascita della Comunità dell’Isolotto di Firenze come comunità di base e, in qualche modo, per il convergere di strade diverse, anche il sorgere delle altre comunità di base italiane.
Quella sera autunnale, umida ma non piovosa, la chiesa e la piazza dell’Isolotto si affollano di migliaia di persone (abbiamo calcolato, forse generosamente, che fossero diecimila) consapevoli davvero di partecipare a un parto: secondo la loro percezione emotiva, sebbene non ugualmente chiara in ognuno e forse poco chiara razionalmente in tutti, stavano contribuendo alla nascita di quel popolo di Dio, nuovo centro della Chiesa, che il Concilio aveva concepito come principio, ma a cui non aveva voluto o potuto dare forma e corpo e vita.
Va detto, prima di tutto, che il neonato non era affatto figlio di preti, non aveva le fattezze clericali, non strillava in gregoriano. Sennò che orizzonte nuovo avrebbe aperto? Non si trattava insomma di una questione tutta interna alla Chiesa. Il neonato dell’Isolotto aveva le fattezze, il sorriso e il pianto un po’ strillato dei mille e mille altri neonati in ogni angolo del mondo in quell’anno fatidico. Il parto isolottiano era la dimostrazione che la rivoluzione culturale e sociale del ’68 investiva ogni aspetto della società, nessuno escluso, compreso l’aspetto religioso e più propriamente ecclesiale.
C’è un’altra cosa, per noi importante, da dire: l’assemblea del 31 ottobre si svolge formalmente per dare una risposta all’ultimatum del cardinale Ermenegildo Florit rivolto al solo parroco don Enzo Mazzi: «O ritratti o ti dimetti». Avrei dovuto ritrattare una lettera di solidarietà ai giovani cattolici dell’associazione I Protagonisti, che il 14 settembre avevano simbolicamente occupato il duomo di Parma, in forma di riunione di preghiera, per una Chiesa povera e libera dall’autoritarismo e dalla collusione col potere ed erano stati caricati dalla polizia intervenuta in assetto antisommossa all’interno del duomo stesso, su richiesta del vescovo, e denunciati. Paolo VI era intervenuto pubblicamente con aspre accuse verso gli occupanti. La lettera di solidarietà, assai dura con la gerarchia, era stata letta durante la messa in tre chiese parrocchiali fiorentine: l’Isolotto, la Casella, il Vingone e firmata dai tre parroci, da altri preti e da qualche centinaio di fedeli. A me solo però era chiesto di ritrattare, pena la rimozione da parroco. La Comunità non solo percepisce la necessità di difendere il proprio parroco, ma soprattutto sente il bisogno di affermare la propria soggettività e responsabilità collettive. Siamo popolo di Dio, il parroco è uno di noi. La necessità di rispondere è per così dire la cornice, l’occasione contingente. Al fondo noi sappiamo che c’era altro e ne siamo testimoni. La gestazione veniva da lontano. Era la stessa gestazione, lo stesso processo di trasformazione profonda della società e della Chiesa a cui papa Giovanni aveva dato voce e strumenti operativi convocando il Concilio. Anche senza l’ultimatum del cardinal Florit si sarebbe giunti prima o poi a quel parto. Per quanti sforzi facessimo, il Vangelo e l’esigenza di comunità sbattevano costantemente contro il muro del Tempio, cioè contro l’irreformabilità della struttura parrocchiale fondata sul ministero ordinato del parroco. Quell’assemblea isolottiana della fine dell’ottobre del ’68 costituisce il tentativo di oltrepassare il muro: il popolo (allora si chiamava così il movimento che coinvolgeva la massa degli abitanti del quartiere e non solo i praticanti) afferma la propria centralità, la propria sovranità, il proprio potere, detronizza il potere del prete e, pur senza negare il ministero di servizio evangelico, lo inserisce all’interno di tale nuova centralità popolare. Hanno un valore quasi secondario i termini della risposta al cardinal Florit scaturita dall’assemblea isolottiana del 31 ottobre. Ciò che conta è il fatto che a rispondere non è il parroco, l’unico che era stato chiamato in causa, secondo la prassi canonica feudale, ma il popolo, il quale sostanzialmente dice al vescovo: è con tutti noi che devi parlare e trattare perché il ministero del prete ha significato e valore solo all’interno del popolo di Dio; vieni dunque all’Isolotto.
L’assemblea del 31 ottobre fu l’inizio di una vicenda che si protrasse per mesi anzi per anni ed ebbe risonanza al livello mondiale.
Il momento più drammatico si svolse nel gennaio 1969. Qualche mese prima della strage di piazza Fontana, la chiesa dell’Isolotto fu invasa da una delle prime squadre neofasciste che, armata di spranghe, catene e bastoni, cacciò le migliaia di persone che costituivano la comunità parrocchiale decisa a resistere pacificamente alla repressione. E una magistratura compiacente ignorò la violenza fascista e perseguì le vittime della provocazione incriminando e processando quasi mille persone della Comunità dell’Isolotto, totalmente innocenti, che dopo qualche anno furono infatti pienamente assolte.
La genesi delle altre centinaia di comunità cristiane di base italiane trova costantemente sul suo cammino positivo e creativo la repressione intraecclesiale e insieme il macigno dell’intreccio perverso di cui abbiamo parlato sopra. Il quale usò come manovalanza le squadre neofasciste al Nord e la mafia al Sud per attuare azioni e provocazioni violente analoghe a quelle avvenute nella chiesa dell’Isolotto.
Successe anche nella Chiesa ciò che avveniva nell’insieme della società. Ovunque in Occidente, e specialmente in America Latina, si usò la violenza stragista fino a rasentare in qualche paese il genocidio, per bloccare il movimento di crescita complessiva della società, culturale, religiosa e politica. A dir queste cose sembra di rimasticare romanzi dell’orrido. In realtà una tale valutazione storica che a noi sembra inequivocabile è completamente ignorata dalla storiografia dominante. Non bisogna quindi stancarsi di riproporla.<
br />L’aborto della speranza dunque, cosa fatta? L’«uomo planetario» soffocato nel seno della gestante? E perfino la memoria devitalizzata con la riduzione del ’68 a roba da archeologia? Non è proprio questo il messaggio distruttivo che viene trasmesso ai giovani?
L’obiettivo più intrigante ottenuto dalla strategia repressiva è stato quello di aver annebbiato la fiducia nella visione della esistenza personale e della storia come tracciato non sempre lineare ma dotato di senso, passo dopo passo: dalla schiavitù al riscatto, dalla oppressione alla liberazione, dalla alienazione alla responsabilità, dalla sacralità come dominio esterno alla sacralità intrinseca al tutto, dall’angoscia per la finitezza dell’esistenza avida d’immortalità per esorcizzare la morte all’accettazione fondamentalmente gioiosa del «nulla creativo» che ci avvolge. Non si può negare che di fronte al fiume di sangue versato nel dopoguerra, fino ad oggi, di fronte alle sofferenze inflitte per bloccare il processo di liberazione, di fronte alla vittoria su tutti i fronti e in tutto il mondo dell’intreccio infame, vacilla ogni speranza. È segno di una debolezza interna alle speranze? O forse la liberazione è in radice un processo senza fine e una scommessa perenne? E i salti evolutivi ci sono, e il ’68 fu uno di questi, ma non c’è un salto ultimo? C’è sempre un «oltre»? Può tale scommessa chiamarsi fede? Ma fede in che cosa?
Domande inquietanti che mi sono rimaste nell’anima. Da lì, alla ricerca di senso all’interno di reti di relazioni, si dispiega l’onda lunga del ’68.
(da Micromega 01/2008)
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