1968: indietro non si torna

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Nel 1968 stavo terminando gli studi teologici al Pontificio Seminario Romano Maggiore e alla Pontificia Università Lateranense. Rispetto a quando avevo cominciato l’università, nel 1963, era evidente il cambiamento di clima intercorso. In quel periodo si sprigionò infatti una notevole ventata di novità e un vivacissimo spirito di partecipazione e di dibattito. La discussione aveva un posto straordinario nella cultura quotidiana: tutto si poteva cambiare con la discussione, con le assemblee, con gli incontri. C’era voglia di discutere, di confrontarsi, di aprirsi a nuove prospettive e a nuovi orizzonti. Le stesse lezioni universitarie furono animate da scambi di opinioni molto accesi e in alcuni corsi si arrivò perfino – cosa inaudita in una università ecclesiastica – ad una sorta di «autogestione». Gruppi di studenti si ritrovavano per leggere insieme testi che per la cultura ecclesiastica di allora erano dirompenti, come La Chiesa è comunione di J. Hamer, nel quale la Chiesa non era più intesa come una «società perfetta gerarchicamente organizzata», ma come una comunione fra i fedeli, oppure Vera e falsa riforma della Chiesa del domenicano francese Y. Congar.
Mi piace ricordare anche due piccoli libri, tra i numerosissimi che circolavano allora: Veracità di H. Küng e La fraternità cristiana di J. Ratzinger. Quest’ultimo, dell’inizio degli anni Sessanta, fu non poco innovativo: nella critica al marxismo il giovane teologo tedesco chiedeva ai cristiani di riprendere il patrimonio di solidarietà e di fraternità presente nelle stesse Scritture e nella tradizione patristica. Il volume precedeva di poco l’esperienza difficile che il futuro papa faceva come professore a Tubinga nel ’68 di fronte all’eccessiva polarizzazione delle posizioni (sarei stato felice allora se avesse incontrato l’esperienza di un altro ’68, non polarizzato e spesso sciolto nella politica, come ad esempio quello di Sant’Egidio che, svincolato dalle ideologie, era ed è rimasto radicato nel Vangelo).
Si andava sgretolando una struttura educativa rigidamente piramidale e deduttiva. Anche nel seminario si iniziò a dire che l’educazione non doveva essere più fondata sul solo rapporto individuale, ad esempio tra l’alunno e il rettore, ma anche sulla condivisone fraterna tra gli stessi seminaristi. Insomma, anche nel particolare ambito della vita del seminario si cercava di declinare l’idea della comunione cardine della Chiesa. Ricordo l’entusiasmo di un mio compagno di seminario, don Andrea Santoro, ucciso lo scorso anno in Turchia, nel sottolineare in un suo appunto l’assoluta novità di ciò che stava avvenendo nel corso di un incontro che organizzammo fra di noi.
L’ondata teologica del Vaticano II contribuì anche ad un processo di svecchiamento dell’insegnamento impartito nel Laterano. Tra i molti esempi che potrei ricordare ne faccio uno: mi stupì molto che un serio professore come Michele Macarrone, docente di storia della Chiesa, accogliesse l’idea di alcuni di tenere un corso sull’utopia e persino sulla storia dell’idea di rivoluzione. Ovviamente entrarono nel dibattito il pensiero teologico di studiosi francesi come H. De Lubac e Y. Congar, M.-D. Chenu e J. Maritain, ma anche tedeschi come K. Rahner, J.B. Metz, W. Kasper oltre che ovviamente J. Ratzinger. Importante fu la riscoperta della Scrittura come ispiratrice della teologia e non semplicemente come testo a supporto della dogmatica. Così pure fu notevole l’attenzione al cristianesimo dei primi secoli (ricordo Paolo VI che volle regalarci il volume il volume di P. Battifol, appena edito in lingua italiana), come pure la riscoperta della teologia spirituale, con l’insegnamento del camaldolese B. Calati, e la teologia liturgica che accompagnava la neonata riforma e la Messa in italiano, con gli studi di C. Vagaggini. Ovviamente fu particolarmente vivace il dibattito sulla teologia morale. Un ruolo chiave ebbero volumi di B. Häring sulla morale centrata sull’amore, prima che sulla precettistica. La stessa apologetica fu animata da nuove prospettive più legate agli studi biblici e alle nuove condizioni culturali. Ebbero non poco successo i testi del gesuita R. Laturelle che dalla Gregoriana rimbalzavano anche nelle altre università ecclesiastiche.
Fu un travaglio lungo e non facile per trasformare un insegnamento manualistico ancora deduttivo che doveva però aprirsi ai nuovi metodi che le diverse discipline teologiche ormai seguivano. Del resto, la scuola teologica romana, uscita in un certo senso sconfitta dal Vaticano II, aveva nel Laterano un suo baluardo. I volumi di diritto pubblico ecclesiastico del cardinale A. Ottaviani, per fare un solo esempio, erano i testi usuali nella università lateranense. Per noi studenti appariva comunque chiara la divaricazione fra le conclusioni del Concilio e l’impostazione dei corsi adottata. La tensione era spesso alta. Tuttavia nello corpo docente si iniziavano a notare differenti sensibilità che portavano comunque noi studenti ad un confronto spesso vivace. Era però scontata una facile e superficiale polarizzazione tra cosiddetti innovatori e conservatori.
Il 1968 fu anche l’anno in cui venne emanata la Humanae Vitae, che diede vita ad una accesa discussione sul ripensamento del matrimonio, sulla maternità e la paternità responsabili, sulla contraccezione. Ricordo ancora con vivezza il professore di teologia morale, F. Lambruschini, che ci comunicava il dibattito attorno a queste nuove problematiche etiche che nell’enciclica – fu lui a presentarla alla stampa – vennero poi sistematizzate. Legato a questi temi si allargò il dibattito sulle dimensioni dell’amore cercando di inserire la riflessione sulla sessualità nella più ampia dimensione dell’affettività che interessava anche la condizione sacerdotale. Il celibato, risottolineato come una scelta alta e forte, più che una repressione della sessualità veniva inteso come una via per arricchire la dimensione relazionale che doveva esplicarsi nell’arte della pastorale con i fedeli. Insomma il prete non era una persona asessuata, ma un uomo che si appassionava nel ministero sacerdotale al servizio di tutti. La paradossalità della sua condizione non era un limite ma una ricchezza per lui e per gli altri. È in questo anelito ad andare incontro alla gente che si giunse ad una semplificazione anche dell’abito. Il rischio che si correva fu quello di confondere la vicinanza con la conformità. La giusta e preoccupazione di non essere estranei al mondo purtroppo talora significò per alcuni l’abbandono della propria identità di preti. In verità la sfida si giocava nell’essere con tutti senza abbandonare la propria dimensione di alterità. Fu una prospettiva difficile da proporre, ma era la via che il Concilio indicava. Attorno a queste tematiche si ebbe una notevole effervescenza con posizioni a volte molto diversificate e non sempre sagge.
Ma le contraddizioni che emersero allora andavano oltre il solo dibattito intraecclesiale. Si poneva in questione il rapporto stesso della Chiesa con la società e il mondo. La Costituzione conciliare Gaudium et Spes, fu una sorta di magna charta che presiedeva tali dibattiti. Talora si dice – e forse a ragione – che l’approccio dei padri conciliari al mondo fu segnato da un «facile» ottimismo. Ma non si deve dimenticare che tale approccio nasceva da uno straordinario anelito di incontro e di dialogo tra la Chiesa e il mondo. Splendida fu la prima enciclica di Paolo VI sul dialogo. Si delineava un cambiamento profondo nella vita della Chiesa: si poneva al servizio del mondo e n
on viceversa.
Erano, per di più, gli anni in cui il «Terzo mondo» si affermava con grande evidenza, anche attraverso il raggiungimento dell’indipendenza di nuovi Stati. La Chiesa sentiva l’urgenza di entrare in contatto con quanto stava avvenendo nel mondo in tutte le sue latitudini. Crebbe non poco la coscienza interna alla Chiesa sul rapporto privilegiato da avere con i poveri. Ricordo ancora con chiarezza lo stupore che suscitò in noi l’affermazione di Giovanni XXIII all’inizio del Concilio: «La Chiesa si presenta quale essa è e vuole essere: la madre di tutti e particolarmente dei poveri». E il Papa mostrava concretamente un nuovo atteggiamento: basti pensare alle visite che fece nelle parrocchie di Roma, al Bambin Gesù e a Regina Coeli. Era un vescovo che tornava in mezzo al suo popolo. E noi del Seminario Romano, che lo aveva avuto come alunno, apprendevamo con qualche orgoglio a guardare la città in maniera misericordiosa e paterna, con spirito diverso da uno sguardo distante e ingessato. Per noi seminaristi era un titolo di gloria chiedere di andare nelle parrocchie, soprattutto in quelle della periferia romana, per vivere un sacerdozio vicino alla gente. Furono per me importanti testi come quelli di un parroco francese sulla parrocchia missionaria, Michonneau e la famosa lettera pastorale del cardinale di Parigi, E. Suhard, su Il prete e la città, nella quale avviava una nuova prospettiva nel rapporto tra i preti e la città moderna, come pure mi appassionò la lettura del romanzo I santi vanno all’inferno, sull’avventura dei preti operai.
In effetti, in quegli anni, il seminario si aprì alla società. Gli esempi si possono moltiplicare. Ne ricordo uno significativo: l’apertura del Seminario alla stampa e al materiale culturale. L’Avvenire ci aveva portato il dibattito conciliare in casa. Non circolava più solo Il Quotidiano. E con il ’68 iniziarono ad arrivare riviste come Quest’Italia e moltissimi ciclostilati – il ciclostile era quel che internet è oggi – dalle realtà del mondo cattolico più in fermento. Molte di queste erano romane, da quella di don R. Sardelli che riprese l’esempio di don Milani con la «scuola 725» all’acquedotto Felice, a quella del salesiano don G. Lutte, all’altra del bendettino G. Franzoni; posso ricordare anche i numerosi opuscoli di movimenti come I Cristiani per il socialismo o i testi di alcuni sacerdoti romani che scelsero di lavorare in fabbrica, ed anche materiale proveniente dalle università laiche. Negli incontri che avevamo nella parrocchie romane, dove ci recavamo settimanalmente per un’esperienza pastorale – anche questa fu una conquista di allora – incontravamo giovani che partecipavano al movimento studentesco, e con essi si accendevano non poche discussioni e dibattiti.
Un elemento che favorì questo incontro, e che deve essere tenuto nella massima considerazione anche per comprendere il contesto generale dell’epoca, è costituito dalla riforma liturgica promossa a seguito del Vaticano II. Per noi fu un cambiamento molto profondo: venne meno l’aspetto più rituale della celebrazione in favore di una maggiore partecipazione da parte di tutti. Molte sarebbero le riflessioni su questo tema come pure sulle irresponsabilità che ci furono da varie parti. Ma la Messa in italiano divenne la punta di diamante nella missione verso il popolo soprattutto di periferia: la Chiesa parlava la loro lingua. È in questo senso che si diffusero le famose messe beat: entrava nelle chiese il linguaggio musicale giovanile degli anni ’60. La ragione era l’incontro con il mondo giovanile e la sua cultura. La stessa Radio Vaticana iniziò a trasmettere canzoni moderne a tema «religioso», come quella dei Nomadi Dio è morto. Alla luce di queste contaminazioni anche sul piano della cultura generazionale, non risultava strano che alcuni tra gli studenti che partecipavano alle mobilitazioni studentesche prendessero parte anche alla vita parrocchiale.
Le esperienze cui diede vita il mondo cattolico italiano sul finire degli anni Sessanta ebbero dunque origine sia da elementi prodotti all’interno del mondo cattolico stesso (a partire dall’onda conciliare), sia dal portato di un più ampio processo di rinnovamento che investiva la società nel suo complesso. Ne emergeva una galassia ampia e complessa di esperienze. È difficile classificarle. Se ne potrebbero individuare in maniera sintetica tre grandi filoni: le Comunità di base, un coacervo complesso e molto variegato i cui protagonisti, sotto l’impulso della volontà del cambiamento, giunsero sino alla «dissoluzione» del messaggio religioso nella scelta politica. In quell’epoca tutto ciò che voleva avere una qualche rilevanza era politico e in genere di sinistra. Altri gruppi, più marcatamente religiosi, come Comunione e Liberazione e i Focolarini, che venivano dai decenni precedenti, e altri ancora, come i Neocatecumenali e Sant’Egidio che nascevano proprio nel ’68, anche questi molto diversi tra loro, erano tuttavia percorsi da un anelito religioso più marcato. In quegli anni maturarono la loro fisionomia e gettarono le basi del proprio radicamento che ebbe successivamente una capacità aggregativa e culturale più robusta. Un terzo gruppo può essere rappresentato dalle innumerevoli esperienze legate più direttamente alle parrocchie che ritessevano una rete di relazioni tesa alla traduzione del Concilio nella vita delle comunità in tutto il territorio nazionale. L’elemento comune che può legare insieme percorsi ed ispirazioni di fondo così diversi, e talvolta divergenti, può essere individuato nell’idea di una nuova prospettiva missionaria, cioè nella volontà di portare la Chiesa in mezzo alla gente.
L’esperienza alla quale ho avuto modo di partecipare in prima persona è quella della Comunità di Sant’Egidio, nata dalla composizione di due differenti tensioni, una di carattere ecclesiale e una di natura culturale. Lo sposalizio tra queste due tensioni innescò un circuito virtuoso straordinario. La Comunità nacque per iniziativa di Andrea Riccardi al liceo classico Virgilio di Roma, proprio nel 1968. Il primo nucleo fu costituito da un gruppo di studenti liceali che si riuniva per riflettere attorno al Vangelo e andare ad aiutare i bambini delle baracche di Ponte Marconi. Era un gruppo slegato da qualsiasi realtà parrocchiale che da una parte respirava la novità conciliare, dall’altra viveva l’emergente anelito a costruire una società nuova e più giusta. Quando ebbi modo di incontrare Andrea Riccardi e parlammo mi parve che quella esperienza rispondesse all’idea di una Chiesa più evangelica, più legata alla vita della gente soprattutto ai più poveri della città. Era una novità straordinaria, un frutto fecondo che non nasceva all’interno dei tradizionali movimenti cattolici come l’Azione Cattolica o gli Scout, ma prendeva forma spontaneamente a partire dal binomio «spirito del Concilio-nuova prospettiva di società». Entro tale binomio la Chiesa, concepita non come un’istituzione rigida ma come una realtà di comunione, diveniva fermento per l’intera società attraverso un’opera concreta di fraternità e di amicizia. Non era una concezione «clericale» della Chiesa – concezione presente anche nella gran parte delle comunità di base per le quali la Chiesa era fondamentalmente la «gerarchia» o comunque i preti – ma una concezione evangelica: la Chiesa sono tutti coloro che si radunano attorno al Vangelo. Insomma, la Chiesa
non è un «affare dei preti» ma di ogni credente. E se si voleva «riformare» la Chiesa bisognava iniziare dalla riforma di se stessi, ossia uscire dal circolo chiuso del mondo borghese (la gran parte degli studenti veniva dalla borghesia romana), o comunque dal proprio piccolo mondo chiuso, per edificarne uno davvero nuovo. Questo significava scegliere di edificare comunità cristiane legate al Vangelo e vicine ai poveri. Tale impostazione ci liberò non solo dal clericalismo, ma anche dalla tentazione dell’ideologia, a quei tempi per lo più di sinistra, pressoché egemone all’interno dei vari movimenti per il riscatto sociale. Il punto saldo di riferimento era il Vangelo. Ricordo ancora un colloquio con G. Franzoni, animatore della Comunità di base di San Paolo di Roma, che ci disse: «Voi non avete fatto la scelta di classe. Avete fatto la scelta di campo». Intendeva dire che non avevamo aderito alla scelta marxista per intervenire nella vita della città, sebbene fossimo presenti, e saldamente, nelle pieghe drammatiche della Roma delle borgate. Fu un momento esaltante e drammatico per noi scoprire l’«altra» Roma, quella delle baracche: un gruppo di studenti borghesi scopriva, a poche centinaia di metri da casa, una Roma tutta diversa, una folla di circa centomila baraccati. Anche il futuro cardinal Martini, nel 1974, quando era rettore dell’Istituto Biblico di Roma, chiese a Sant’Egidio di poter lavorare concretamente con i poveri per evitare un cristianesimo, o meglio una evangelizzazione, staccata dall’impegno concreto per i più poveri. Ovviamente non mancarono momenti di collaborazione con altri gruppi cristiani. In quegli anni ci fu a Roma una sorta di grande magma del cristianesimo innovatore; ricordo ad esempio alcune assemblee fatte a Santa Cecilia. Si trattava di una realtà assai variegata e non poco ambigua anche a motivo dell’allora noto dilemma tra il cambiamento delle strutture contrapposto al cambiamento dell’uomo. Il pendolo per molti schizzò verso la politica. Negli anni Settanta molti gruppi si dileguarono e altri confluirono nella sinistra più estrema.
In ogni caso tutte queste realtà del cattolicesimo innovatore contribuirono a far sedimentare nella città di Roma ciò che era stato sollevato dall’onda lunga del Concilio. La data che può assurgere a riferimento simbolico di questo grande processo di rinnovamento può essere il 1974, anno in cui il cardinal Poletti indisse un’assemblea dei cristiani di Roma. Fu un evento assolutamente straordinario: il Concilio giungeva a Roma con la sua forza di cambiamento e di rinnovamento. Vi parteciparono personalità di ogni ispirazione, da Franzoni a Marchesini, da Scoppola a Monticone, da Riccardi e De Rita, da Di Liegro a Riva, e così oltre. I cristiani di Roma, con il cardinale Poletti tra loro, che si trovavano come un popolo raccolto a dibattere sulla propria identità e sulla propria missione a Roma. Le tensioni con il Campidoglio e con la stessa DC furono notevoli e spesso molto dure. Ma da quell’evento la Diocesi di Roma acquisì, forse per la prima volta, un suo volto chiaro e definito. Non era più un’appendice del Vaticano ma una vera e propria Chiesa locale che si poneva con coscienza di fronte alla vita della sua città.
Con il Concilio e con i movimenti di rinnovamento che da esso sono stati generati, la Chiesa cattolica ha intrapreso un irreversibile processo di rinnovamento. Non credo sia più possibile tornare indietro. Semmai è necessario prendere atto delle esagerazioni compiute nel corso della traduzione concreta delle acquisizioni conciliari. L’interpretazione del Vaticano II come rottura completa con il passato ha portato a incomprensioni profonde. Un esempio eclatante è la confusione tra comunione e democrazia, come si è verificato nell’esperienza della Chiesa olandese. La crisi di oggi affonda le radici nella scorretta comprensione del Vaticano II e dell’anelito a dialogare con la modernità. La Chiesa, si potrebbe dire, non sarà mai «moderna» pienamente proprio per lo scarto escatologico che la connota. E tuttavia non può esistere senza un amore appassionato per il mondo. Essa è chiamata, come amava dire Giovanni XXIII, ad essere sempre Mater e Magistra. Certo, ad essere Magistra per indicare la via della verità evangelica, che è la sua missione propria. Ma anche ad essere Mater, ossia a non abbandonare per alcun motivo quello sguardo amorevole al mondo che ogni madre ha per i suoi figli per aiutarli a incamminarsi verso un futuro di fraternità e di pace.

(da MicroMega 01/2008)



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