2011, l’anno della Primavera araba
Annamaria Rivera
, da Liberazione
L’evento geopolitico più importante del 2011 è senza dubbio la “primavera araba”, come è stata battezzata dai media occidentali: una catena d’insorgenze contro regimi dispotici o dittatoriali nel Maghreb e Mashrek, di tale dimensione e così gravida di conseguenze da essere comparabile alla svolta epocale della decolonizzazione. Una serie di rivolte popolari, soprattutto giovanili, così entusiasmanti e contagiose da favorire e influenzare i movimenti antiliberisti che si sono propagati dai paesi europei ad Israele, fino agli Stati Uniti e oltre. E non solo. Le implicazioni sono di portata globale poiché muteranno sia gli equilibri interni al “mondo arabo”, sia i rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa, con effetti anche su paesi quali Israele e Iran.
Malgrado la formula sintetica e inflazionata, i contesti e gli esiti attuali della “primavera araba” sono variegati e complessi: si va dalla transizione democratica, relativamente pacifica, della Tunisia alla dura repressione che marca il dopo-Mubarak in Egitto, pesantemente condizionato dai vertici militari; fino alla spirale di repressione sanguinosa e guerra civile che caratterizza oggi la Siria, così da sollecitare iniziative diplomatiche e forse anche tentazioni d’intervento militare.
In Tunisia e in Egitto, il processo che ha costretto alla fuga i dittatori si è manifestato sotto la forma di un movimento popolare vasto e spontaneo, con forti capacità di contestazione e di resistenza. Il fatto che le prime elezioni democratiche abbiano sancito la vittoria schiacciante degli islamisti vincola notevolmente ma non chiude, almeno finora, il processo rivoluzionario in gestazione. E ciò malgrado, secondo i casi, la durezza della repressione (Egitto), l’ambiguità del governo di coalizione rispetto alle istanze rivoluzionarie (Tunisia), l’allarmante ritorno dei salafiti e le loro continue provocazioni (Egitto e Tunisia). I risultati elettorali, soprattutto tunisini, hanno messo in luce, fra l’altro, le carenze e la frammentazione dei partiti laici e di sinistra – in Tunisia, specie di quelli che si definiscono modernisti –, il loro carattere perlopiù elitario, la loro distanza dagli umori, bisogni, interessi delle classi subalterne. Tant’è che neppure essi avevano previsto la sollevazione di massa, immaginando piuttosto, come scrive Sadri Khiari, che il regime di Ben Ali sarebbe finito grazie a una transizione negoziata con l’opposizione, al riparo da ogni protagonismo popolare.
Probabilmente in Tunisia il voto per Ennahda – massiccio sia fra le classi medie che fra i lavoratori salariati – è stato anche una forma di riconoscimento e ricompensa del passato di carcere, torture, esilio, clandestinità con cui il partito d’ispirazione musulmana ha pagato la sua coerente opposizione al regime. Inoltre, Ennahda rappresenta forse, agli occhi di una parte dei suoi elettori, la garanzia sicura della rottura col vecchio regime, ma anche la promessa del ritorno all’ordine: la pesante crisi economica, l’aggravamento della disoccupazione e della povertà, mentre tengono accesa la fiamma del conflitto sociale, spingono molti a desiderare la fine della sequela di scioperi, proteste, manifestazioni spontanee che tuttora percorrono il paese. C’è da aggiungere, infine, che dalla modernità rappresentata prima da Bourguiba e poi da Ben Ali hanno tratto profitto solo le élite borghesi. Non certo quella parte di popolazione che, emarginata e costretta in condizioni miserabili, ha identificato la modernità con la corruzione, il malcostume, le derive mafiose del regime benalista; e perciò ancor più ha coltivato l’attaccamento alla cultura musulmana, cosa che ha favorito il grande successo elettorale di Ennahda.
In Tunisia come in Egitto e in altri paesi di lingua araba, le insorgenze contro i regimi dittatoriali non sono nate dal nulla, bensì da tradizioni di lotte anticoloniali, da una lunga storia di opposizione politica, da una vicenda di proteste e duri conflitti sociali, anche recenti, occultati dai regimi e ignorati in Occidente. Non che la rivoluzione tunisina e quella egiziana si potessero presagire nelle forme peculiari in cui si sono manifestate. Ma certo la rottura degli equilibri economici e sociali provocata dal neoliberismo; il susseguirsi di lotte e proteste popolari; l’insopportabilità di regimi feroci e sempre più corrotti (nondimeno protetti dagli Stati Uniti e dall’Unione europea per trarne cospicui vantaggi economici e politici); la presenza massiccia di giovani generazioni istruite, familiarizzate con internet, destinate alla disoccupazione o alla precarietà: tutto questo poteva suggerire che qualche sommovimento avrebbe prima o poi scosso quei regimi incancreniti.
Eppure, fino all’ultimo, non v’è stato osservatore occidentale o servizio d’intelligence (rari gli studiosi) che avesse previsto insorgenze di piazza tali da far cadere i regimi. Duri a morire, infatti, sono gli stereotipi che rappresentano il mondo “arabo” come immerso nelle tenebre dell’arretratezza o comunque intrappolato fra la minaccia dell’islamismo radicale e violento e il male minore di regimi dispotici – spesso detti moderati – manipolabili e asservibili agli interessi occidentali. E assai tenace è il pregiudizio secondo il quale gli “arabi” sarebbero inadatti alla democrazia, che si pone in perfetta continuità con la vecchia tesi razzista che li definiva “immaturi” per l’indipendenza.
Tutt’oggi anche a sinistra si può trovare chi propone il teorema del complotto: le rivolte o rivoluzioni, compresa la tunisina, sarebbero state istigate e manovrate dall’Imperialismo, dal Capitale, dai servizi d’intelligence occidentali. E invece, se c’è un mito sfatato, soprattutto dai casi tunisino ed egiziano, è quello dell’esportazione della democrazia, in nome del quale l’Occidente ha giustificato il colonialismo, il neocolonialismo e le guerre dell’ultimo decennio, “umanitarie” o “contro il terrorismo”. Quando la democrazia è un processo conflittuale che sorge dal basso e dall’interno, è allora che potrebbe essere sottratta alla consueta declinazione astratta ed eurocentrica e ridivenire viva entro la concretezza delle dinamiche sociali peculiari di questo o quel paese. In realtà, l’atteggiamento che tende a negare ogni ruolo autonomo alle sollevazioni riflette la paura tipica del borghese che in fondo disprezza i movimenti popolari, soprattutto se “arabi”, e preferisce l’ingiustizia al disordine, la stabilità garantita da un regime dittatoriale al rischio del caos e del dilagare del “fondamentalismo islamico”.
I processi rivoluzionari, si sa, si dispiegano in archi di tempo assai lunghi, se non epocali. E ogni insorgenza rivoluzionaria è insidiata da una contro-rivoluzione che tende a divenire più o meno permanente. Ma, comunque vada a finire, resterà il fatto che le rivolte o rivoluzioni sono state una straordinaria esperienza di presa di parola collettiva nonché di formazione politica per un gran numero di persone, soprattutto giovani. Qualunque sbocco avranno le transizioni, le popolazioni in rivolta, costituite dalle più varie categorie sociali, hanno dato prova di notevole maturità democratica. Sebbene per decenni ingabbiate, represse, sottoposte al terrore di Stato, auto-organizzandosi hanno sfidato collettivamente i regimi, si sono appropriate della parola e dello spazio pubblico per reclamare giustizia e dignità, r
ispetto e libertà. In Tunisia, subito dopo aver costretto il despota alla fuga, il movimento ha costituito ovunque gruppi di autodifesa contro le provocazioni e le violenze della polizia segreta del vecchio regime e più tardi comitati locali per la difesa della rivoluzione. Come definire tutto ciò se non come un esperimento di democrazia partecipativa? E’ anche questo che ci fa ritenere che, al di là dei limiti e delle difficoltà dei movimenti popolari e i possibili tradimenti delle aspirazioni che ne hanno caratterizzato la fase emergente, un nuovo periodo storico si è aperto.
(5 gennaio 2012)
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