21.10.08 – Ricordo di Vittorio Foa
Pochi giorni fa era scomparso Leopoldo Elia. Ieri Vittorio Foa. Il Senato gli ha dedicato una seduta nel pomeriggio di oggi, martedì 21. Riporto qui il mio intervento con l’avvertenza che seguiva tre precedenti interventi esaustivi sotto il profilo biografico. Questa è la ragione per cui ho evitato ripetizioni di temi già trattati.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, se dovessi provare a spiegare a un giovane il significato e l’importanza nel secolo passato dell’uomo che ci ha lasciato, credo che, come prima cosa, lo inviterei a guardare una delle sue fotografie da persona anziana: mostra un sorriso quasi infantile, incuriosito, senza pregiudizi, aperto.
Un personaggio così deve ovviamente la sua indole al mistero della natura umana. Tuttavia, per spiegare al giovane in che modo Foa si è formato, credo che gli dovrei dire di andare a cercare qualcosa che gli racconti la Torino in cui Foa è stato ragazzo, dove ha studiato e dove si è formato: una città che aveva ancora la caratteristica che gli attribuiva il poeta Gozzano «un po’ vecchiotta, provinciale, fresca tuttavia d’un tal garbo parigino»; una città ai limiti della leggiadria provinciale e però una città dove misteriosamente si sono temprate delle intelligenze piene di rettitudine, di serietà, d’indipendenza, di capacità di servire la società pubblica.
Bisognerebbe poi che gli dicessimo qualcosa sulle figure di quella città: il vecchio professor Monti, che è stato il maestro di Ginzburg e di Pavese, i suoi compagni iniziali dell’avventura intellettuale; ma subito bisognerebbe incontrare il carcere, perché Vittorio Foa ha avuto questa avventura, che ha quasi trasformato in fortuna. Credo scherzasse ogni tanto sul fatto di aver vissuto la Resistenza dalla galera: è stato imprigionato dal Fascismo ed è stato a lungo in carcere, facendo della galera un’occasione di rinascita, d’introspezione, di ricostruzione e di analisi di una società che non era in grado di vedere.
Sono quei misteri che forse capitano alle generazioni che hanno avuto grosse sfortune, grosse batoste, che hanno dovuto lottare più di quanto abbiamo fatto noi. Paradossalmente, dunque, la galera come fortuna. Al tempo stesso, però, per spiegare che cosa temprava le persone che avevano il coraggio di affrontare decenni di galera, senza battere ciglio, senza cedere e senza inginocchiarsi, bisognerebbe dire ai giovani di andarsi a leggere certe pagine di Fenoglio in cui i partigiani erano costretti, come dice il regista americano, a scappare dopo aver sparato, a scappare per salvarsi. Il soldato che fugge è buono per un’altra volta. Quel senso di irriducibilità, la necessità di garantire la sopravvivenza del nucleo combattente, perché non si può cedere, perché ogni vita salvata in una cascina d’inverno, al freddo, è un guadagno per l’avvenire.
In ogni caso l’esperienza centrale, forse la più centrale di tutte, della vita di Vittorio Foa è legata all’attenzione rivolta ad un aspetto che oggi è passato di moda, che non esiste più e che invece ha costituito uno dei punti centrali del pensiero socio-politico del secolo passato: la centralità operaia.
Vittorio Foa è uno dei grandi interpreti di questa realtà, che bisognerà oggi riuscire a rileggere sul piano mondiale e che in Italia ha incuriosito tutti i più genuini ricercatori delle questioni sociali, soprattutto nella temperie culturale degli anni Cinquanta e Sessanta. La Torino sabauda di Gozzano si trasforma nella Torino dei «Quaderni rossi» – una rivista piena d’inventiva, d’immaginazione sociologica, come diceva Wright Mills – una città capace d’investigare, che recupera all’interno di quell’esperienza la grande esperienza dei consigli operai del periodo gramsciano.
In Vittorio Foa c’è fermissimo il punto d’appoggio della potenza della comunità operaia come potere consiliare, come collettività riflessiva che sa farsi carico perfino della sopravvivenza della fabbrica. Tutti sappiamo che molte fabbriche torinesi furono salvate dagli operai durante quei terribili mesi della ritirata tedesca, ma bisognerebbe aggiungere anche qualche cosa sull’intorno.
Credo che sarebbe utile, per un giovane che voglia sapere chi è stato Vittorio Foa, allargare anche l’orizzonte ad una letteratura apparentemente non politica, andarsi a leggere le pagine di Lalla Romano sulle montagne piemontesi, rendersi conto di cosa significhi guardare attraverso il velo della nebbia le montagne terse all’orizzonte, le montagne in cui si è lottato da giovani e che si guardano da anziani con la consapevolezza di aver raggiunto un fine superiore. Foa poi si è ritirato davanti al mare, ma credo che continuasse a pensare alle sue montagne.
Pancho Pardi
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