21.11.08 – Stare divisi per restare uniti
Il diario quotidiano dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.
E’ dura; ormai non ce lo nascondiamo più.
Inizialmente l’euforia bastava a trascinare gli animi ed accendere le coscienze, riversandole in piazza in moltitudini che davano forza, infondevano allegria, rinfrancavano lo spirito e il corpo. Negli slogan e nei cori si sfogava la rabbia, la frustrazione, le umiliazioni subite in anni di silenzi; camminare per ore sotto il sole o la pioggia, al freddo o al caldo, urlando o ballando o cantando, ogni giorno, dava la misura minima – e massima – del necessario, di quel q.b. di familiare memoria, un quanto basta buono per le nonne alle prese coi fornelli e, in un primo momento, anche per noi, alle prese con la prima fiammata di protesta.
Ora, non più: la soglia del quanto basta si è alzata di molto; camminare e urlare il nostro dissenso non è più sufficiente. Ora bisogna costruire.
Ed è dura. Le assemblee di un mese fa erano semplici, banali, quasi una sfilza di interventi fotocopia che incitavano alla lotta, alla partecipazione fisica e al dispendio collettivo di energie motorie; avevano sì è no un paio di punti all’ordine del giorno; da organizzare, da comunicare, da condividere – in termini di contenuti – c’era ben poco; duravano una, due ore massimo: poi, tutti in piazza.
Quelle di oggi, invece, durano quattro ore o più; i punti all’ordine del giorno sono tantissimi, a volte molto distanti fra loro: e s’intersecano, si confondono nei vari interventi, ed è difficile stilarne un resoconto conclusivo; degli eventi da organizzare, ormai, s’è perso il conto; le energie spese sono quasi sempre mentali – di gran lunga più sfibranti. Infine, il vero sfogo quotidiano non è più nella piazza, ma risiede nel dormire, beati, dopo una cena abbondante e una bella aspirina.
All’assemblea nazionale s’era posto l’accento sulla necessità, dopo quel primo, straordinario momento collettivo, di "tornare a casa", nelle proprie città e nelle proprie facoltà per ricominciare a discutere a livello locale. L’esigenza, molto sentita, di legarsi al territorio in cui l’università è posta, a quello specifico territorio – ognuno il suo -, è stata da molti sottolineata, infiltrandosi, a volte, nei gruppi di lavoro tematici, collegandosi al discorso sull’autoformazione, sulle vertenze intermedie da proporre ognuno separatamente – ma sulla base delle linee guida comuni – nei propri atenei, alle nuove e creative forme di lotta da mettere in atto. Dapprima non capivo che motivi si sarebbero mai potuti addurre ad un dovere del genere: ma come, proprio ora che ci siamo trovati, dobbiamo separarci di nuovo? Ognuno, dunque, per la sua strada? Che senso avrebbe?
Eppure un senso lo aveva, lo ha. Lo comprendo solo adesso, osservando il lavoro sfiancante e tenace che i miei colleghi portano avanti a discapito di tutto – del gelo che avanza, del buio la sera, della disaffezione di tanti studenti alla protesta non più così infuocata come i primi tempi. Ricominciare dal territorio perché è il territorio che ci ha dato, sin dall’inizio, le soddisfazioni più grandi: penso alla domenica con i bambini di due settimane fa, penso agli incontri con i maestri, i genitori, i liceali di Roma, penso ai cartelli appesi alle finestre e le persone che, sui mezzi, chiedono notizie, informazioni, danno sostegno.
Ma penso soprattutto alle associazioni in lotta, da anni o da mesi – o comunque, da prima di noi -, che hanno voluto in questi giorni manifestarci la loro solidarietà e il loro appoggio, affermando che i punti in comune fra chi si batte per la propria acqua, per le proprie cave, per i propri spazi – loro, dunque -, e noi, sono tanti, e non vanno mai dimenticati. Noi, come loro – così scrivono – difendiamo un bene pubblico, oltre che il nostro stesso diritto di difenderlo e rivendicarlo. Noi, come loro, siamo legati ad esigenze concrete, a luoghi reali, alla soddisfazione di bisogni primari. E inoltre noi, come loro, solo uniti siamo potenti, mentre divisi restiamo quel nulla ignorabile e scavalcabile che siamo diventati in questi anni.
Legarsi al territorio perché è il territorio il nostro vero coinquilino, il nostro primo interlocutore. Come chi, tornando a casa dopo una giornata di lavoro, condivide le proprie esperienze coi suoi coabitanti, come chi parla a turno e a turno si ascolta, e insieme si fa coraggio a vicenda e si organizza, come può, per vivere al meglio – così noi dobbiamo continuare a comportarci con le nostre città, i nostri paesi, le nostre terre e i loro mille problemi. Siamo o non siamo tutti, in primo luogo, cittadini che non si limitano a delegare la propria sovranità, ma che pretendono di esercitarla giornalmente, fino ad incidere sulle scelte di palazzo?
E noi, nello specifico, come università, siamo o non siamo una risorsa sociale per questo paese? Creatori di cultura, loro ambasciatori nelle vie con le lezioni in piazza e le iniziative "porte aperte", abbiamo il dovere di far comprendere a chiunque incroci quest’Onda che la nostra rabbia può essere la rabbia di tutti; che i nostri problemi, le nostre carenze, sono problemi e carenze di tutti, nella misura in cui si ripercuotono sull’economia intera; e che la nostra vittoria, al pari della nostra sconfitta, sarà comunque di tutti, quindi anche loro – malgrado l’indifferenza e l’abulia di cui si ammantano.
Ricominciare a coinvolgere dalle facoltà, raggiungendo quei tanti, troppi studenti che ancora non si sono informati o schierati, che ai margini della protesta non rischiano e non si sentono in vena di tentare. Essere sempre più punto di riferimento per chiunque voglia e chieda del sapere – di qualunque tipo, perché è anche questo il nostro ruolo all’interno della società. Riallacciarci al mondo del lavoro a partire da quei lavoratori che, dietro i nostri angoli, combattono le loro piccole battaglie quotidiane, invitandoli alle nostre assemblee o andando noi alle loro. E organizzando eventi che si ripercuotano per tutto lo spazio abitato, che siano essi concerti, notti bianche, cortei o incursioni, momenti ludici o politici, di controcultura e controinformazione.
Ma tornare a casa significa anche tornare ad una dimensione più umana, più gestibile: una dimensione ridotta nel numero, ma non nei contenuti, dove le differenze possono essere valorizzate e non debbono, per forza, appiattirsi in una sintesi di massa. Dove i docenti ritornino ad essere nostri alleati nella costruzione di un’università migliore. Dove le pratiche di lotta possano trovare l’ambiente adatto ad innovarsi e rigenerarsi, esplorando nuove forme. Dove il dibattito sul progetto di autoriforma dell’università continui in maniera paritetica e partecipata, perché nei contesti ristretti non è tanto la dialettica politica, quanto il dialogo democratico ad essere il principale strumento di condivisione. E dove le piccole battaglie interne alle facoltà che ci siamo dati come obiettivi intermedi riescano a trovare uno sbocco concreto, e lasciare quindi un segno delle nostre volontà nelle strutture che ormai sentiamo come casa.
Ed è dura, durissima, indubbiamente; ma non potrebbe che essere così. Si tratta di pensare, a lungo, tantissimo, e di parlare, tanto ancora. Spesso spendendo le forze in un qualcosa che non avrà lo stesso ritorno, in termini di attenzione generale, che il semplice urlare "no!" garantiva – sempre e comunque. Farsi il mazzo, come si suol dire, ormai non più quadro ma sempre più cubico e con nessun tornaconto immediato, nessuna possibilità di rinfrancare velocemente l’ego con qualche titolone, qualche dichiarazione sbilanciata, qualche passo indietro frettol
oso e scomposto. In un silenzio che vuole inghiottirci, ma che noi conosciamo fin troppo bene per averne davvero paura.
Tutto questo, mentre le denunce per i fatti di piazza Navona marciano infine sulle nostre teste – di pochi, in particolare, una quindicina circa: lesioni, rissa e – udite, udite! – adunata sediziosa. Un capo d’imputazione davvero originale, quasi letterario, il cui sapore vagamente arcaico si mischia al tanfo di naftalina dei grembiulini già noti.
Turandoci il naso, senza timori, andiamo avanti.
Gaia Benzi
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