25 aprile. Ricordare vuol dire non morire
Pierfranco Pellizzetti
Ti lascio la mia lotta incompiuta / E l’arma con la canna arroventata / Non appenderla al muro. Il mondo ne ha bisogno (Testamento, Kriton Athanasulis).
Mai come ora suonano profetiche alle nostre orecchie forse disilluse le parole della raccolta Due uomini dentro di me, che il poeta della Resistenza greca scriveva nel lontano 1957.
Ora, quando perfino nel giorno consacrato al ricordo – il 25 aprile – l’epopea prima di tutto civile dei ragazzi rapidamente fattisi uomini che, con il mitra a tracolla, scesero dalla montagna e liberarono le città dal giogo nazi-fascista, degli operai che nelle città e nelle officine difesero a prezzo della vita i loro macchinari che avrebbero consentito la ricostruzione, mentre la Wehrmacht intendeva sequestrarli per trasferirli altrove, delle ragazze partigiane che da staffette correvano forse i rischi maggiori, dei parroci e dei civili che protessero gli ebrei nascondendoli nelle loro canoniche e abitazioni per salvarli dalla deportazione, questa straordinaria sequenza ininterrotta di eroismi, durata due lunghi inverni, mai come prima appare vittima di un indecente tentativo di svuotamento e sterilizzazione nei suoi significati più alti e più nobili. La cancellazione del suo incancellabile merito di aver salvato l’onore dell’Italia dopo un ventennio mussoliniano in cui si dovette assistere a troppe accondiscendenze e diffusi compromessi opportunistici.
A un’adesione al regime spesso per quieto vivere nel Bel Paese dei maestri di sopravvivenza e del tirar a campare; in cui su oltre mille e duecento docenti universitari solo in diciotto rifiutarono di sottoscrivere il giuramento di fedeltà alla dittatura fascista. Al tempo in cui Gaetano Salvemini, prendendo la via dell’esilio, scriveva un amaro commiato al Rettore dell’Ateneo romano: «la dittatura fascista ha soppresso, ormai, completamente nel nostro paese, quelle condizioni di libertà, mancando le quali l’insegnamento universitario della Storia – quale io l’intendo – perde ogni dignità, perché deve cessare di essere strumento di libera educazione civile e ridursi a servile adulazione del partito dominante». Ma a cui faceva da controcanto l’invito di Concetto Marchesi – ispirato da Palmiro Togliatti – a esprimere quel malfamato giuramento pur di mantenere la cattedra e – così – «svolgere un’opera utile per il partito e la causa dell’antifascismo».
L’eterna, furbesca, italica transigenza auto-giustificatoria, già contrastata dall’intransigenza dei pochissimi, spazzata via nella breve stagione resistenziale da quel movimento di popolo, di un popolo, che il presidente Sergio Mattarella ha chiamato “il nostro secondo Risorgimento”.
Una breve stagione in cui si sognò la rifondazione etica nazionale e che, dopo la Liberazione, presto venne proiettata in una dimensione meramente celebrativa per delimitare, contenerne e infine metterne fuori gioco le insidiose potenzialità critiche. Il bieco tentativo di trasformarla in una sorta di astorico reperto museale, deprivato della sua forza di irradiamento; generico stendardo da esibire in parata nelle feste laiche comandate.
Eppure ancora gli odierni adepti dell’antica ignominia ne osteggiano le pur flebili celebrazioni denunciandone la natura “divisiva”. Nonostante la settantennale dissipazione che di quella epopea ne ha fatto chi doveva esserne custode. Chi non ha mai contrastato il lungo lavorio corrosivo del principio antifascista che impronta la nostra carta costituzionale, ispirata ai valori della Resistenza. Per cui alla vigilia del 25 aprile un ennesimo manipolo di trucidi travestiti da tifosi calcistici può esporre a Milano, dietro piazzale Loreto, un osceno striscione con la scritta “onore a Benito Mussolini”. Ossia il capo delle camice nere che marciarono su Roma profanando il Parlamento risorgimentale trasformato in “un bivacco di manipoli”: il “mandante morale” dell’assassinio di Giacomo Matteotti, delle aggressioni mortali a Giovanni Amendola e Piero Gobetti, dell’omicidio su commissione dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, della morte civile comminata ad Antonio Gramsci, al cui cervello – secondo il Duce – “per vent’anni bisognava impedire di funzionare”; quel Duce firmatario delle leggi razziali e che trascinò l’Italia in una disastrosa avventura bellica a fianco dei nazisti, culminata nella guerra civile.
Onore a chi ha legato la propria vicenda storica a questo incommensurabile obbrobrio?
Ebbene sì. Nonostante i pregressi, il ricordo di un’Italia che alzò la testa contro tutto questo e volle resistere continua a essere “divisiva”. E divisiva continui a essere, se ciò significa distinguere separare colpe e meriti; se ancora oggi un bullo sfascista seduto sulla poltrona del Viminale può sperare di silenziarne il messaggio buttandola sull’irrisione più cialtronesca; che pretenderebbe di ridurla a “un derby tra comunisti e fascisti”. Proprio lui, che in gioventù si impancava a “comunista padano” e ora tresca con tutti i vecchi fascismi balzati fuori dai loro sacelli; rivitalizzati da una stagione che ne ha cancellato l’esecrazione popolare consentendo loro piena mano libera e nuovi mimetismi, assicurati dall’azzeramento di ogni memoria storica. In questa palude dove la distinzione politica affonda nell’indistinto, per cui perfino Destra e Sinistra risulterebbero categorie antiquarie.
L’eclisse della ragione avviata da quando il fronte progressista (o più direttamente “la Sinistra”) decise di rinunciare ai suoi tratti distintivi per inseguire una Destra che appariva vincente all’interno del nuovo ordine globale finanziarizzato. Quando la Sinistra post-laborista ha incominciato a vergognarsi di se stessa e del suo radicamento sociale nel lavoro, cercando di riciclarsi come caporalato del consenso al servizio dei nuovi vincitori. E ha portato a termine, per quanto le competeva, l’opera di liquidazione della Resistenza iniziata il 22 giugno 1946, quando il guardasigilli Togliatti, nella sua costante ricerca di accreditamento negli equilibri post-bellici, varò l’amnistia dei crimini fascisti. E Pietro Calamandrei dichiarava che «era venuto meno lo stabile riconoscimento della nuova legalità uscita dalla rivoluzione».
Scelta proseguita a sinistra con l’opera di marginalizzazione – graduale quanto costante – delle energie di rinnovamento civile emerse dalla Resistenza. Un formidabile patrimonio di virtù repubblicana e democratica troppo a lungo tenuto in stato di ibernazione. Tanto che da parte di qualcuno si è cominciato a parlare di “Resistenza tradita”. Sorte non troppo diversa da quella che gravò anche sul primo, di Risorgimento, simboleggiata dall’amara fine della loro esistenza che colpì le due principali menti politiche italiane dell’epoca: Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini, ridotti alla condizione di stranieri in patria ed emarginati.
Eppure questa Resistenza tradita, irrisa, normalizzata, denigrata continua a vivere nei cuori di chi ancora non ha rinunciato al sogno di un’Italia diversa. Diversa da una Prima Repubblica precipitata nel buco nero di Tangentopoli, da una Seconda segnata dal marchio d’infamia dell’egemonia berlusconiana, dalla Terza in avvio come incontro contro natura tra Cinquestelle e Lega: l’inconcludenza chiacchierona, con i suoi angusti orizzonti familistici, i santini bigotti e le mitologie pseudo-novi
stiche del WEB, troppo inconsistente e friabile per fronteggiare la truce barbarie di assatanati mercenari discesi dalle valli per fare bottino. Calpestando valori e decenza per puro e semplice tornaconto.
Mai come ora urge rinnovata resistenza. Per contrapporre in un’opera di verità il coraggio repubblicano e democratico all’oscurantismo della reazione in cerca di rivincite senza prigionieri e alla miserabilità dei giustificazionisti, rapidi quanto corrivi nell’adattarsi a ogni compromesso del tempo pur di sopravvivere. Resistere in attesa che prenda corpo una nuova mobilitazione per nuove lotte di liberazione.
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