25.10.08 – Il diritto al futuro degli studenti

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La mobilitazione degli studenti contro la legge Gelmini è il fatto più interessante. Così tanto che mi fa accantonare il proclama da miles gloriosus che Berlusconi ha dettato prima di partire per la Cina: darò disposizioni a Maroni su come usare la polizia contro le occupazioni. Salvo rimangiarsi il giorno dopo la minaccia. Con l’aggiunta di una battuta di involontario umorismo: verità e informazione sarebbero ormai definitivamente separate. Se lo dice lui…
Prima ancora che per la sua larghezza, la mobilitazione è interessante perché mette in discussione l’avvenire. Gli studenti, dalla media all’università, sono usciti fuori dal guscio dell’indifferenza, più o meno appagata, che sociologi, sondaggisti e pensatori vari attribuivano loro.
Nelle interpretazioni correnti più diffuse la condizione del lavoro precario, e della precarietà tout court, appariva come orizzonte dato, inevitabile e come tale accettato o subito. Per un certo tempo era anche invalso l’uso di una visione alternativa della precarietà: se ne scopriva il vantaggio, la possibilità di non essere schiavi di un solo lavoro ma di poter di volta in volta usufruire di opportunità diverse. Non essere bloccati in una sola mansione, poter saltare con disinvoltura da un posto all’altro, sembrava offrire occasioni di libertà e magari di adesione a vocazioni successive, inanellate nel tempo. Che bello poter passare dal pony express della pizza alle serate da baby sitter, dalle ripetizioni al call center! Facile ironia. Tutte cose che si è disposti a fare per un po’ di tempo quando si ha l’allegria sufficiente e la prospettiva di non doverlo fare all’infinito. Tutte cose che si fanno senza eccessive tristezze quando si sa che hanno l’utilità temporanea di permetterci di fare almeno in parte ciò che si vuole, o di riempire i vuoti in attesa di farlo.
Sappiamo tutti che una intelligente letteratura underground ha visto il lato stimolante di queste prospettive aperte all’incertezza: cambiare ruolo e ritmo di vita, percorrere filoni diversi intrecciati allo stesso tempo o cadenzati in segmenti di tempo di successivi può essere, nelle grandi città, un modo stimolante di interpretare l’esistenza metropolitana; e nelle piccole città un modo per sfuggire al provincialismo. Chi non vorrebbe vivere più di una vita? Ma perché il gioco sia soddisfacente è necessaria almeno la virtuale prevalenza della volontà sulla coercizione.
Ed è perfino divertente rivedere a ritroso quanto questa disponibilità sia piaciuta a chi lucra sull’incertezza del lavoro. Un nuovo ramo dell’apologia capitalistica vi si è insediato. E per un antico motivo: l’imprenditore è letteralmente incantato dalla prospettiva decennale, e magari pluridecennale, di una generale offerta di lavoro a basso costo. E non solo: una massa di lavoratori (attenzione: imprenditori di se stessi, sostiene la vulgata) in competizione tra loro e quindi negati alle possibilità dell’azione collettiva. Una manna. L’elogio della flessibilità, celebrato da chi non è flessibile, si rappresenta come ritratto oggettivo di una realtà moderna, ma quanta ideologia della peggiore specie vi si annida! Flessibilità, precarietà, separazione rovesciano la condizione industriale classica, basata sulla contrapposizione nel luogo di lavoro di una collettività di lavoratori davanti al singolo capitalista. Oggi al contrario il singolo lavoratore flessibile, precario, separato è privo della sua collettività scomparsa e si presenta nel mercato del lavoro solo e nudo di fronte alla classe dei capitalisti.

Bene, ora parla la nuova generazione. E lo fa col suo linguaggio. Non ha e non vuole avere dipendenze dalla politica di cui diffida. Ma è tutt’altro che qualunquista. Le sue analisi vanno al cuore del problema. Mettono in discussione la concezione, prodotto del pensiero unico, per cui tutti devono rassegnarsi alla precarietà e all’incertezza. Sanno bene che non c’è il Bengodi nel prossimo futuro: non sarà facile per nessuno, eccetto che per i ricchi e i protetti. Sanno bene che il posto fisso non c’è più, quasi, per nessuno. Vogliono però mettere in discussione il diritto del sistema di imporre un destino indiscutibile.
Sanno che il lavoro senza qualità non ha futuro e si chiedono perché mai l’università dovrebbe essere ridotta a un imbuto sempre più stretto dove le opportunità di ricambio tra le generazioni dei ricercatori sono ridotte da cinque a uno. Scoprono nella loro esperienza diretta che cosa vuol dire subire un governo il cui orientamento centrale è sfornare leggi incostituzionali: vedono negati i principi degli articoli 33 e 34 della Costituzione. Vedono la scuola pubblica impoverita e indebolita e diffidano delle promesse pelose cantate dalle fondazioni private: se ne troverà qualcuna disposta a mettere capitali in prospettive di ricerca prive di profitti a breve termine? Ci sarà qualcuno disposto a finanziare storia medievale e letteratura greca? E non apparirà loro troppo costosa la fisica delle particelle?
Le lezioni in piazza sono la scena in cui si difende la scuola pubblica come bene comune. Ci sono dunque i professori. E ci sono accanto le famiglie. Una nuova inedita alleanza che promette inedite prospettive di lotta civile. Ci sarà molto da discutere e raccontare.

Pancho Pardi



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