27 gennaio: la memoria e la speranza

Giuseppe Panissidi

Coincidenze che coincidono. Alla vigilia del 27 gennaio, Giornata della Memoria, a Mondovì, uno spurgo antisemita, opportunamente in tedesco e, per maggiore chiarezza, corredato dalla Stella di Davide, ha insudiciato la casa di Lidia Rolfi, ex deportata nel lager di Ravensbrück, nel 1944, nonché autrice di libri di memorie come “Le donne di Ravensbrück”. È la casa dove la donna ha vissuto sino alla sua morte e dove ora vive il figlio Aldo.

“Juden Hier”, ovvero “Qui c’è un ebreo”. La ‘segnaletica’ neonazista sbaglia obiettivo, dal momento che la famiglia Rolfi non è di origine ebraica, e però ha il merito di rinfrescare qualche memoria labile di troppo e accendere nei più giovani il bisogno di sapere. Sì, l’Europa, culla della Civiltà e del diritto, dell’Etica e delle libertà, ha generato e conosciuto anche “il flagello della svastica”. Con buona pace dei pruriginosi e grotteschi tentativi – distinti e viziati da fallacia logico-storica e irresponsabilità (in)civile – del revisionismo e/o negazionismo di ‘reinterpretarne’ gli orrori, perpetrati su uomini e popoli per definizione inferiori. E, poiché il contagio non ripugnò e non risparmiò il nostro bel “fascismo della Provvidenza”, a noi incombe il dovere indefettibile, benché sgradevole, di coltivare e vivificare la memoria di quell’immondo passato. Perché, infine, passi davvero. “Un passato che non passa, che passato è?”, la domanda di G. F. Hegel. A tal fine, ci resta ancora molto da imparare, questo il punctum dolens, dentro un presente gravido di tensioni e rischi.

Purtroppo, ormai da decenni, l’interesse primario della politica italiana verte, in modo crescente e preminente, se non esclusivo, sull’incremento del numero degli adepti e dei consensi, molto più che sull’adempimento dei propri doveri costituzionali. E la suprema Carta regolatrice, al netto della chiacchiera impotente e farisaica, sembra languire nell’indifferenza, al limite del discredito.

Invero, “l’umanità commette gli stessi errori e li sconta con il sangue”. La drammatica lezione della Storia, da Gibbon in poi, riecheggia nelle parole di Benito Mussolini, nella sua ultima intervista, il 20 marzo 945, quando era ormai lucidamente presago della fine. Si versa quasi in tema di autoanalisi, in coniugazione reciproca con una lucida riflessione etico-politica.

Nel fuoco del dibattito sull’odierna fase nazionale di storia e di cultura, distinta da un susseguirsi scomposto e garrulo di sussurri e grida sul fascismo, spettro e paura, un giovamento oltremodo significativo si può ricavare dal passaggio cruciale della citata intervista. Discutibile, ma dirompente la conclusione del duce: “Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani”.

Di certo, appare singolare la consonanza dell’assunto mussoliniano con la convinzione del martire Piero Gobetti, secondo il quale “il problema non è Mussolini, ma il mussolinismo”, nonché dell’idea profonda di Antonio Gramsci, in merito all’imperativa necessità di una radicale “riforma intellettuale e morale” del popolo italiano, iniziata durante la lotta di liberazione, ma ben presto scemata.

Ebbene, se è vero che il tratto distintivo della politica contemporanea è la strumentalizzazione delle coscienze delle persone, la cui psicologia e dignità morale e civile risultano più o meno astutamente insidiate da concetti, sì, sbrigativi, ma che rispecchiano i loro disagi di individui e cittadini, è a questa vulnerabile sensibilità popolare che gli apprendisti stregoni prospettano, tra l’altro, il pericolo mortale dell’inquinamento della cultura e della società, a causa di flussi selvaggi di persone ‘diversamente umane’. Il nemico di turno.

Senza mai smarrire il valore della specifica differenza storico-culturale, basterà rammentare che la ‘predicazione’ di Hitler raggiunse la piena e definitiva ‘plausibilità’ e notorietà quando, e solo quando, reduce da una serie di insuccessi, si convinse che “solo l’odio e la passione conferiscono stabilità al popolo”. Allora, con grande vigore ed enfasi, lanciò la parola d’ordine cruciale: gli ebrei, mentre prosperavano in terra germanica, ne deturpavano l’ariana purezza.

Se proviamo a considerare il ‘nostro’ problema in tale prospettiva, ci rendiamo conto che non è possibile evocare genericamente un pericolo “fascista”, data l’irrilevanza pratico-cognitiva delle astrazioni storiche indeterminate. Se, tuttavia, aderiamo all’invito di Karl Marx, secondo il quale “bisogna prendere le cose alla radice, e la radice dell’uomo è l’uomo stesso”, non si dovrà negare la giusta attenzione a quanti, come George Mosse, scomparso venti anni fa, ritengono che il fascismo, in quanto temperie emozionale, spirituale e morale, non fatto storico determinato e compiuto, ma bensì inteso quale primo grande esperimento di “persuasione e manipolazione delle masse”, resta una questione drammaticamente aperta, anche per il presente e il futuro. “È accaduto, quindi può accadere di nuovo…”, l’amaro monito di Primo Levi, costantemente richiamato da Liliana Segre.

Dunque, occhi spalancati.

Ancora Mussolini: “Mutevolissimo è lo spirito degli italiani. Quando io non sarò più, sono sicuro che gli storici e gli psicologi, si chiederanno: ‘Come un uomo abbia potuto trascinarsi dietro per vent’anni un popolo come quello italiano?’ Se non avessi fatto altro, basterebbe questo capolavoro per non essere seppellito nell’oblio. Altri potrà forse dominare col ferro e col fuoco, non con consenso, come ho fatto io”. Quel “consenso”, si sa, si nutriva di una strategia di propaganda sistemica e capillare, messa in atto, tra l’altro, mediante i primi cinematografi e l’istituzione dell’‘Ordine dei giornalisti’, potente strumento di controllo e indirizzo dell’informazione.

Il duce rivendica: “Quando si scrive che noi siamo la ‘Guardia Bianca’ della borghesia, si afferma la più spudorata delle menzogne. Io ho difeso, e lo affermo con piena coscienza, il progresso dei lavoratori più di quanto non fosse consentito dalla non lieta situazione del capitale italiano. Chi dice che ho sbagliato, ha il dovere di dimostrare come si sarebbe potuto fare meglio." Ed ecco l’autocritica, quasi… postuma: “Io sono sempre pronto ad ammettere i miei errori, non ho mai pensato di essere infallibile. E in questa guerra ho sbagliato anch’io. Ma assai meno degli altri. I tedeschi non mi hanno mai ascoltato ed hanno fatto male. Hitler, che è il solo che mi stimi sinceramente, non ha voluto portare subito, come intendevo io, il centro della guerra nel Mediterraneo. Io ero contrario all’attacco contro la Russia… Quando ho fatto di testa mia, ho sempre indovinato. Ogni uomo ha la sua stella, la mia stella è buona. Ma non posso associarla ad altre senza neutralizzarla… È il destino di Hitler che si è imposto, non il mio”.

E ancora: “A rigore di termini, non sono stato neppure un dittatore, perché il mio potere di comando coincideva perfettamente con la volontà di obbedienza del popolo italiano… Quando muta il vento della fortuna, la massa cambia direzione alle vele, ma il vento de
lla fortuna è assai mutevole e cambia. Per tutti. Il giudizio di oggi non conta. Conterà quello di domani, a passioni sopite, a confronti stabiliti”.

Conclude: “Dopo la sconfitta io sarò coperto furiosamente di sputi, ma poi verranno a mondarmi con venerazione. Allora sorriderò, perché il mio popolo sarà in pace con sé stesso”.

Sebbene l’auspicata “venerazione” non gli arrida e, ad esempio, l’antisemitismo oggi, in casa nostra, registri una percentuale molto inferiore all’antislamismo, resta la necessità di sciogliere, Carta alla mano, le frange malate del neofascismo, al fine di scongiurarne anche il “sorriso” e il connesso pericolo per il “suo popolo” di una “pace con sé stesso”, regressiva, illusoria e antistorica.

Da qui, l’inanità della rovente diatriba sull’asserito “pericolo fascista”. Si consideri che, nell’ottica di Hannah Arendt, come negli studi di “psicologia di massa”, il “totalitarismo” prevede e consiste nella riduzione delle persone a “fasci di reazioni nervose”, alla pura dimensione emozionale, mediante la neutralizzazione di quello spazio di libertà e pluralità di prospettive, che uccide il valore autonomo alla politica e del “mondo comune”. Chi blatera favorevolmente di democrazia emozionale e pulsionale, non fa che tradire l’intento di legittimarne la forma politico-istituzionale.

Invero, mediante la deprivazione della capacità di scelta, azione e iniziativa, degli individui, entro un universo comune e plurale, e la “naturalizzazione dell’identità”, predisposta a obbedire agli stimoli, secondo l’automatismo del cane di Pavlov, si configurano esseri impersonali e replicanti. Arendt indica l’antidoto nell’opposta strategia etico-politica, altro dai sermoni domenicali, di formare e valorizzare uomini “portatori di tendenze”, agenti pensanti – ah, la sinistra! – che, non a caso, la temperie totalitaria equipara ai “portatori di una malattia”. Con l’effetto perverso, oltre che eversivo, che uno stravolgimento siffatto “nega la libertà umana più di qualsiasi tirannide. Una volta, con la tirannide, bisognava perlomeno essere un avversario per essere punito… qui l’innocente e il colpevole erano eguali”.

Sul terreno pernicioso del totalitarismo, gli uomini appaiono incapaci di prendere le distanze dalla loro natura, e di esercitare quella libertà di movimento che rappresenta l’antipode del male. Arendt lo concettualizza come “barbarism”. “Essere umano”, all’opposto, significa possibilità di convivere e pensare con gli altri, evitando di agire per diritto o per rovescio, senza l’ombra di un pensiero personale. Sotto questo cruciale profilo, l’antifascismo, oggi come ieri, si identifica nel contrasto civile, ancor prima che politico, morale e culturale, al “barbarism”. Esalta, infatti, una concezione dell’uomo e del cittadino ontologicamente distinti dalla bestialità, perché capaci, nella distanza, di agire, oltre che di reagire in modo automatico. In breve: di comprendere, pensare e scegliere.

Lo spazio pubblico, infatti, dell’azione intenzionale e consapevole, dunque sempre imprevedibile e imprevista, è altro dall’identità privata, con il suo carico di tensioni, paure e pulsioni, nonché di una povertà che nessun reddito di cittadinanza può mitigare e riscattare.

Altro, insomma, quel che noi siamo e scegliamo di essere, il ruolo che vogliamo assumere o, ancora Arendt, la “maschera” che decidiamo di indossare.

Altrimenti, l’idea classica ciceroniana dell’”Historia magistra” è destinata a perdere margini di senso. “La storia testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera” … Nessun magistero, infatti, è mai possibile, senza allievi o con allievi neghittosi. Anche se qualsiasi autoesaltazione da parte di uomini di governo inevitabilmente può richiamare alla mente, per libera associazione di idee, e non già per identificazione, la cieca tracotanza del potere fascista, artefice irrazionale e nefasto di una grande potenza di… cartapesta. Inducendo taluno nel macroscopico errore di immaginare e paventare il ritorno del fascismo, quale “ritorno dell’identico”.

Sembra pertinente una considerazione conclusiva intorno alla specifica complessità della nostra democrazia.

Una memoria storica debole, oltre a rimuovere il valore e la verità, rischia sempre di uccidere anche la speranza, leit motiv di uno straordinario racconto della liberazione, “La tregua” di Primo Levi, soprattutto quando ci si sottrae al dovere di confrontarsi con il proprio passato, senza spirito di autoflagellazione, evidentemente, ma anche senza rimuoverlo, con il rischio di ripeterlo, sia pure in una versione… aggiornata.

Vero è che, nonostante il risultato emiliano, rilevante ma insufficiente, in quanto scampato pericolo più che vittoria, l’avanzata della destra, ampiamente e significativamente confermata in Calabria, dove la sinistra ha perso il 30% in pochi anni, continua a rappresentare un grave pericolo. Potrebbe, infatti, raggiungere la soglia di una completa legittimazione di popolo, se proseguiranno la confusione, le divisioni e gli errori, strategici e tattici, del campo democratico antagonista, finora in mesto disarmo e in assetto subalterno e difensivo.

Qui, da ultimo, ma non per importanza, anche il compito della scuola e della magistratura, rispetto al profondo “disagio della comunità”, come si esprimerebbe S. Freud.

Appena quattro anni fa, il primo presidente protempore della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce, scomparso di recente, nella consueta relazione per la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, segnalava la fine dell’era di Mani Pulite e della fiducia che la magistratura si era guadagnata sul campo. Dopo, inesorabili, l’inizio della parabola discendente e la significativa recrudescenza del fenomeno della corruttela. I magistrati, ammoniva, non sono in grado di “parlare ai cittadini”, e conseguirne la fiducia, se si considerano “potere, anziché servizio”, e si rivelano incapaci di “dominare le spinte provenienti dal proprio carattere”, dunque, si può intendere e aggiungere, da interessi estranei al fondamento e al principio costituzionali della giurisdizione, una delle istituzioni-cardine di una società sana e bene ordinata.

(27 gennaio 2020)





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