28.11.08 – Pirani e i giustificatori della riforma bisturi

MicroMega

Il mio blog langue. Eppure non si può dire che abbia “mollato”. In settimana: una riunione del gruppo di lavoro della mia Facoltà; una conferenza/dibattito a Senigallia, e un lungo articolo-saggio per un volume collettaneo di «Micromega» dedicato al tema Università. Stanchezza, dunque; ma nessun cedimento interiore. La lotta continua anche dentro di noi, che proviamo a nostra volta ad esser dentro di essa. Altro che facinorosi mestatori del popolo-bue!
Eppure, e me ne sono accorto proprio negli scorsi giorni, conversando, a Macerata, con dei colleghi di quell’ateneo e di altre università, non sono pochi i professori che ritengono “innaturale” e “sospetta” l’adesione a un movimento che essi, sbagliando clamorosamente, leggono come studentesco. Ho detto e scritto ripetutamente che una delle grandi novità, la prima e la maggiore, dell’Onda, è precisamente di essere un movimento spontaneo che nasce dentro la Scuola (dagli asili alle università), e difende l’istituzione in quanto tale, nella sua dimensione pubblica, con il suo carattere formativo. Si tratta della difesa di interessi reali che accomuna ai professori coscienti e coscienziosi (assai più numerosi di quanto non ci vogliano far credere i brunettisti), i ricercatori precari (di cui ho sottolineato reiteratamente il ruolo centrale), gli utenti (gli studenti delle diverse fasce d’età), le loro famiglie (che ne sostengono quasi interamente gli studi e le spese: costituisce un’interessane novità la lettera ai genitori che un gruppo di docenti della Sapienza, stimolati dall’attivissimo Piero Bevilacqua, e seguiti da altri di altri atenei, fin dall’inizio della protesta, hanno, indirizzato ai genitori degli universitari in lotta).
Spiace che un commentatore come Mario Pirani qualche giorno fa su «la Repubblica» abbia preso fischi per fiaschi, come tanti suoi colleghi di penna. E abbia provato a spiegare i veri interessi degli studenti, contrapponendoli al corpo docente ormai condannato dalle notizie relative a concorsi truccati, cattedre “ereditarie”, casi clamorosi di nepotismo e quant’altro. E abbia insistito sul valore simbolico, purificatore, oltre che finanziario dei tagli imposti da Tremonti, davanti alla ormai nota proliferazione di sedi, Facoltà, Corsi di laurea: dati esatti (non sempre, peraltro), che però non cercano di spiegare le ragioni che sono a monte a tali fatti, e che sono tanto esterne quanto interne alle case madri, da cui sono nate le gemmazioni, sovente diventate nuove sedi. Questo costituisce, con le strabilianti cifre che sappiamo, uno dei passaggi preferiti dei sostenitori della riforma del bisturi, ossia della giustificazione a priori dei tagli di bilancio imposti d’autorità dal governo: e infatti, ne stanno parlando e soprattutto straparlando tutti (ho già dedicato attenzione all’emblematico caso di un prefetto ignorante in materia come il signor Barbareschi, impancatosi esperto in cattedra). E nessuno si chiede se, al di là delle ragioni clientelari, degli interessi di agenzie territoriali, dalle banche ai partiti, non vi siano motivazioni serie; come quella dei costi insostenibili relativi al mantenimento di un giovane fuori sede, in una città universitaria, specie se grande. Si è mai fatta una seria politica di aiuto a questi studenti che per necessità o per scelta di un certo indirizzo di studio decidevano di andare fuori a frequentare il loro corso di laurea? L’edilizia universitaria, le mense, i servizi, le biblioteche, le borse di studio, le varie forme di sostegno, economico e non, da noi sono praticamente un sogno. Chiunque abbia la ventura di fare un soggiorno all’estero non ha difficoltà a capire come e quanto siamo arretrati rispetto a Paesi europei che magari hanno pure un Pil inferiore a quello italiano: e il nostro essere indietro, da che cosa dipende se non dalla carenza di finanziamenti? Ci sono senz’altro sprechi e malfunzionamenti, ma la scuola italiana, di ogni ordine e grado, soffre di una carenza strutturale di fondi. Come si può non vedere questa realtà? Una realtà che ci inchioda in una posizione davvero sciagurata.
E se ci dicono che la prima sede universitaria italiana, in qualche classifica stilata chissà dove, è più o meno al duecentesimo posto, occorrerà rispondere chiedendo i dati dei fondi che i 199 atenei che precedono quello italiano percepiscono dai governi, da enti territoriali, da sponsor privati. Magari occorrà sapere anche le tasse di iscrizione e i costi che si addossano agli utenti. Magari chiedersi, infine, anzi prima di tutto, quali siano i criteri che hanno guidato tali classifiche. E, a proposito, sarebbe il caso di smettere di citare tutti questi benedetti IF (impact factor) e PR (peer rewievs), strumenti quantitativi di tipo tecnico che dovrebbero costituire la panacea per valutare i docenti. Non lo sono. Anche perché, non sarà male ricordarlo, i professori universitari non possono esser visti come ricercatori puri: sono anche, o forse prima di tutto, insegnanti. C’è la ricerca, a qualificarli, e dunque a valutarli; ma, guarda caso, esiste pure la didattica.
E perciò non si sa se metterle in burla o preoccuparsene, delle ultime proposte di parte governativa, subito accolte dai soliti opinionisti/moralisti, per cui i professori che non sfornano titoli ogni anno (o giù di lì), saranno penalizzati. Magari pure licenziati, non senza aver ricevuto una buona dose di frustate nei cortili degli atenei, davanti a folle plaudenti che gli metteranno le orecchie d’asino sul capo (modello Grande Rivoluzione Culturale Proletaria Cinese…). E poi chiusi in gabbie, appesi in alto sulle pubbliche vie, affidando la loro inutile esistenza in vita a qualche passante di buon cuore che getti loro avanzi di cibo, mentre i manager di Trenitalia, o di Telecom, o di Alitalia…, e altri ben noti esempi di efficienza e produttività, li additeranno al ludibrio delle loro eleganti accompagnatrici vestite Armani e Chanel.

Angelo d’Orsi



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