29.10.08 – Una routine eccezionale
"Una goccia nell’Onda" : il diario quotidiano dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.
Dopo una tazza di tè caldo e qualche cucchiaiata di minestrone, mi accingo a scrivere il resoconto di questa giornata; e mi accorgo di averne proprio voglia.
Inutile nasconderlo a me stessa: la cosa più emozionante sono i cortei.
Gruppi di studio e assemblee ci portano a ragionare sopra problemi che non comprendiamo ancora del tutto; lì la sensazione di "nuovo", di "fresco", corroborante, è presente a parole, ma lontana nei fatti: a lavoro da poche settimane, ci guardiamo in faccia ancora pieni di domande, spesso amareggiati e, anche se decisi, convinti, preparati, siamo pur sempre umanamente stanchi. Lì è la fatica mentale a sovrastarci e a fiaccare il corpo e lo spirito; tanto che, nella nottata di occupazione, dopo sette ore di assemblea quasi ininterrotta non si ha voglia di parlare di niente, se non di idiozie. Ed è naturale; e forse sarà sempre più dura, resistere in quei frangenti.
Lì è così; ma fuori, in "piazza", è tutto diverso. Nemmeno la pioggia ci scoraggia – oramai siamo attrezzati. Giacconi col cappuccio, ombrelli coloratissimi, fastidiosissimi fischietti, ridendo parliamo per cori anche fra noi: ed è subito festa. C’è un nuovo striscione: "Silvio abbassa la cresta! E’ alla ricerca che devi i tuoi capelli!". Un gruppo di noi vestiti da pagliacci sorregge una scritta: "Salutiamo i colleghi del Senato".
Sì, esatto, torniamo al Senato, e dopo due settimane di sfilate teniamo l’andazzo dei veterani. La polizia chiude il corteo all’asciutto delle sue camionette: tanto lo sa, in coda è fissa Medicina, gente tranquilla; perché prendersi l’acqua a secchiate che viene giù impietosa per tutto il pomeriggio? Solo a noi riesce di camminare per ore zuppi e contenti. Distribuiamo volantini alle macchine ferme in coda per colpa nostra; qualcuno li afferra stizzito, qualcuno sorride. Per i residenti di via Cavour siamo quasi vicini di casa; persino i passanti ci dimostrano più attenzione, un certo rispetto. Sappiamo già quali bar ci diranno che il bagno è fuori servizio, e quali invece lo indicheranno rassegnati con un cenno della testa quando varcheremo in massa la soglia. Non ci sono sorprese sulla via da percorrere: è quella dell’altra volta, curva dopo curva.
E noi andiamo. Fradici, intirizziti, non importa. Andiamo avanti chiaccherando: della protesta, sì, ma anche del più e del meno; non così sorpresi di noi stessi, del nostro numero, della nostra forza, come i primi giorni; non così rumorosi; ma se possibile ancora più determinati di prima. Non stiamo facendo nulla di straordinario, sembriamo dire a chi si stupisce della nostra tenacia anche sotto il diluvio, guardandoci dal calduccio dei palazzi che circondano Torre Argentina: stiamo solo manifestando dissenso, ci stiamo semplicemente battendo per i nostri diritti. E’ normale – credo; dovrebbe esserlo.
In mattinata, all’assemblea di dipartimento – la seconda, per noi -, un professore si è scagliato contro l’articolo 16 della 133: nonostante l’età e la presupposta saviezza, continuava ad imporsi a tutti col suo vocione. "E’ incostituzionale! Ipocrita, per di più, perché dice di seguire la costituzione… Ma nella sostanza è incostituzionale!". "Ma non solo", ribatteva uno studente, "anche poco intelligente nel complesso, una perdita per lo Stato da un punto di vista economico…". Ma lui: "Non c’è bisogno di dirlo: è incostituzionale, non dev’essere, e basta! Ma come fanno a non rendersene conto? Perché nessuno lo dice?". Sembrava un ragazzino, e noi gli adulti che tentavano di frenare i suoi bollenti spiriti.
Molto tranquilli, quindi, all’apparenza. Ma quando finalmente inondiamo piazza Navona, quando ci riversiamo nella viuzza che affaccia al Senato, la rabbia si risveglia d’improvviso, e con lei la voce e la foga. Perché poi di fronte a quelle bandiere e a quelle mura gridiamo più forte, è facilmente comprensibile: ci sembra di dirglielo in faccia, ciò che pensiamo di loro. Ci sfoghiamo di tutto, ci vendichiamo della loro arroganza, dei loro discorsi vuoti, delle falsità che ci vorrebbero spacciare per verità assolute, delle ingiustizie che ci costringono ad abitare quotidianamente; e agli agenti che fanno cordone fra noi e loro urliamo: "Polizia arrestali tutti".
Si alternano al megafono voci di insegnanti, studenti universitari, precari, ricercatori, tutti uniti nel difendere il diritto dell’istruzione pubblica ad esistere ma, soprattutto, a dire la sua su sé stessa. Il tempo non fa prigionieri: dopo una breve schiarita, ricomincia a piovere. Ma la seduta è sospesa – allora funziona fargli sentire la nostra presenza, la nostra attenzione! -, anzi no, prosegue fino alle ventidue: chi fa la notte?, chi resta a dormire? Lampi e tuoni e tanto freddo fin nelle ossa ci fanno presupporre: quasi nessuno. "Ma è giusto così", mi sussurra una ragazza che ha camminato accanto a me per due ore ma di cui non so nemmeno il nome, "siamo combattenti, mica martiri". Tanto domani mattina non la scampano: alle nove si torna tutti quanti qui, alle dieci c’è il voto. "Ci potremmo sdraiare di fronte all’ingresso, così non entrano!"; "Non dire idiozie, non ci faranno mai arrivare fino all’ingresso."; "Ah, forse hai ragione…"
Nella metro, spossata nel corpo ma rigenerata nello spirito, scherzo e rido con un’amica, cercando di fare il punto della situazione: quante manifestazioni abbiamo fatto fino ad ora?, quando più pioggia?, quando più cori?, qual’è stata la più bella? La gente ci guarda in tralice, sbirciando i cartelli, origliando i discorsi; provando a capire, al di là dei proclami, chi è che ha di fronte. Malgrado la stanchezza, è curiosa di noi.
Ripenso a quando intoniamo per loro, che ci osservano ognuno dall’alto del proprio cantuccio, una vecchia rima: "Scendi giù, scendi giù, manifesta pure tu!", e li vediamo applaudire e sorridere; ripenso alle loro facce stranamente malinconiche. Chissà quanta invidia celano, e quand’è che avranno il coraggio di cedere al nostro invito.
Gaia Benzi
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.