29.11.08 – La cultura e i suoi spettatori
Il diario quotidiano dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.
Entrati al Teatro Valle, subito notiamo con un certo imbarazzo che la sala è quasi completamente deserta. Quindici, massimo venti visi di cinquantenni spaesati assistono alla nostra irruzione, appoggiando i programmi sul grembo e guardandosi intorno, perplessi. Le nostre voci rimbombano nell’emiciclo fatto apposta per acuirle, amplificarle in un tuono. A circa tre metri da terra, issata con cavi, un’enorme pubblicità di un grande magazzino suggella la scena.
Inquietante. Un moto lieve di sconforto ci attraversa, quasi di soppiatto. Alcuni di noi salgono sul palco e srotolano lo striscione, leggono il comunicato. Il direttore ci accoglie, esclamando la sua solidarietà; ma non manca di ammonirci, cauto, sulle regole non scritte che, chi assiste ad una rappresentazione, deve rispettare. Alcuni mormorii soffusi commentano: "Guarda che ci siamo già stati, a teatro!", "Assurdo… Perché ce lo dice?", "Non siamo mica dei cafoni ignoranti!".
Beh, forse non era espressa proprio in questi termini. Ma l’idea che, esclusi noi, circolava nelle teste dei presenti non credo si discostasse molto da tale poco elegante definizione. Persino gli attori, alla fine dello spettacolo, hanno voluto sottolineare "la nostra civiltà" – credendo in tal modo di farci un complimento.
E noi, malgrado ci sentissimo un po’ offesi, abbiamo applaudito, soddisfatti. Il blitz in fondo è andato benissimo, abbiamo goduto del "Vangelo secondo Pilato" seduti composti, in religioso silenzio, senza pagare ciò che riteniamo uno strumento indispensabile per il nostro lavoro di studenti e, quindi, un nostro diritto. La protesta per rivendicare un accesso libero alla cultura è perfettamente riuscita.
Nonostante questo, la sensazione risultante – almeno per me – si è colorata di una nota ambigua. Come se l’apprezzamento della compagnia e del direttore non fossero condivisi da tutti, come se ci fosse un non detto che impregnava l’aria e l’opinione comune. Per fortuna un’ingioiellata signora ha avuto la premura di dar voce a tale pensiero nascosto: "Ma occupatevi piuttosto di cultura seria!".
Già, cultura seria; ha detto proprio così. Perché ne esiste una, evidentemente, che non lo è.
Avrei gradito che, oltre ad urlare in maniera scomposta, la gentile signora si fosse alzata per illustrarci lei, dal suo pieghevole scranno di velluto, quale sia la cultura di cui non bisogna occuparsi – non valendone, evidentemente, la pena. E’ forse quella ricreata nel teatro, che la medesima gentildonna aveva profumatamente pagato per apprendere? O forse è quella dei romanzi che leggiamo nel tempo libero, nei momenti di pausa o di noia o di semplice svago? Potrebbe anche essere quella dei libri d’approfondimento non inseriti nei programmi d’esame – e quindi superflui, inutili ai fini del conseguimento del titolo di studio, del pezzo di carta. Chissà.
Eppure, più vado avanti, più un dubbio atroce prende forma nella mia mente: non sia mai che si tratti dell’attualità, del dibattito pubblico, del mondo reale, non sia mai che siano queste cose a non essere cultura seria?
Ripensandoci, potrebbe proprio darsi che sì, ciò che ci circonda non fa cultura; i nostri desideri, le nostre aspirazioni, la loro continua repressione e manipolazione, non fanno cultura; la nostra vita, con i suoi guai e le sue gioie, non fa cultura. O forse la fa. Ma non seria.
Come se più di duemila anni di riflessioni sulla coscienza e i suoi meccanismi, sul sapere e le sue mille forme, sulle molteplici identità che la conoscenza assume fossero passati invano. Come se il Verismo e il Neorealismo fossero stati una semplice parentesi, un incidente di percorso che, nella storia dell’Italia Unita, faremmo meglio a dimenticare.
Un errore di calcolo, ecco. Stupidi, folli noi a considerare le parole di coloro che ci hanno preceduto – e che le gridano, anche morti, dalle nostre biblioteche – come valide nella sostanza, e non solo nella forma. Che ragazzini, a pensare le metafore come proclami poetici, e non solo come figure retoriche – buone per far mostra di sé ai convegni specializzati.
Probabilmente la cultura seria è quella che si produce nelle aule magne degli atenei italiani, il giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico; quella che, costi quel che costi, deve continuare ad esistere per il bene della comunità e dell’Uomo con la "u" rigorosamente maiuscola. Che importa se gli uomini con le minuscole ne verranno privati da leggi ingiuste, immonde, criminali? Non è certo a loro che era stata destinata.
Non è certo per loro la cultura seria, quella che, pura e immacolata, si staglia sopra tutti e, da lontano, li illumina e li umilia, li rende minuscole comparse di qualcosa che è sempre – per sua natura – o prima o dopo, e comunque altrove. L’istruzione di massa, la diffusione delle idee, la divulgazione delle esperienze, sono solo briciole di un piatto succulento che non sta bene mangiare intero.
Ottusi davvero a non capire che esiste una cultura di serie A, adatta a quei vegliardi che, sonnecchianti, sbirciano le slide piene di dati proiettate su un telo, dal posto loro riservato a fianco del rettore; e una di serie B, buona per quegli studenti seduti per terra, senza un banco, senza una sedia, senza nemmeno una lavagna, che pagano lo scotto di follie burocratiche e che, malgrado questo, continuano a studiare.
Siamo degli ingenui, con rivendicazioni ingenue ed ingenue speranze, perché non abbiamo compreso in tempo che esistono, come diretta conseguenza di questa ineludibile dicotomia, didattiche di serie A e didattiche di serie B, che formano studenti di serie A e studenti di serie B, con menti di serie A e menti di serie B e, ovviamente, futuri di serie A – alcuni – e futuri di serie B – la maggior parte. Non era forse palese? Esiste solo una minoranza veramente degna della cultura autentica, e non per merito, bensì per bilanci – ché il rosso non si addice alla sapienza.
Come se la sapienza fosse un condizione della vista, dell’udito, del tatto; come se non derivasse la sua etimologia da tutt’altri luoghi, come se non significasse – nella sua riduzione ultima a radice – "avere sapore", rendere sapido ciò che, senza di lei, sarebbe insipido. Qualcosa che non si limita a dare digeribilità, ma anche gusto al pane quotidiano. Qualcosa che produce soddisfazione, non semplice sazietà.
Ma la soddisfazione non può risiedere nella realtà, e non può risiedervi la Cultura con la maiuscola dedicata agli Uomini con la maiuscola. La realtà è una brutta cosa; meglio non pensarci, meglio essere ottimisti. Se la realtà non si adatta ai sogni – e ai diritti -, che si adattino entrambi alla realtà. Che diventino sogni e diritti di serie B, che si nutrano di speranze di serie B, che scandaglino l’immateriale alla ricerca del luogo ameno dove – intangibile – si staglia il sapere e, quindi, il potere. E che, una volta giunti fin lì, si limitino a contemplarlo – dall’angusto scenario in cui sono. Perché non sta bene viverlo fino in fondo, non sta bene declinarlo nell’universo sensibile in cui siamo immersi.
Forse è questo che intendeva esprimere la signora, parlando di cultura seria: di quella vaga tensione verso il non qui e il non adesso, di quell’immobilismo austero che dovremmo possedere per essere davvero dei "bravi ragazzi". Non importa che assomigli tanto al tenere fisso lo sguardo sulla carota che muove l’asino recalcitrante.
In fondo che ne sappiamo, noi, di cos’è meglio per le nostre vite.
Gaia Benzi
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