29.12.08 – Merry Crisis and a Happy New Fear

MicroMega

Il diario dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.

In questo periodo festivo e riposante, in cui le tensioni mentali e muscolari trovano lo spazio di allentarsi, c’è anche il tempo di tirare le somme dei primi tre mesi di mobilitazione. E ci terrei a sottolineare primi perché, vista la sfiducia dilagante e il nichilismo di cui siamo pregni, facciamo in fretta a disamorarci di una battaglia, scambiando il sonno per morte e una pausa per sconfitta.
Tutto è cominciato timidamente, in sordina, nella terza o quarta pagina delle cronache locali.
Metà settembre. Gruppetti di mamme e maestre si riunivano all’esterno delle scuole per protestare contro il decreto 137, con piccoli presidi e cartelli caserecci, con tanta indignazione e una profonda incredulità. Sembravano tante piccole Don Chisciotte contro l’enorme mulino del governo e dei suoi anchormen.
Poi, lentamente, come in un risveglio da fiaba, sono state raggiunte dagli universitari. Che hanno iniziato a vagare rabbiosi per i corridoi delle loro facoltà, gridando lo scandalo della 133 che nessuno sembrava vedere, cercando di raccogliere consenso, sì, ma soprattutto attenzione: perché il silenzio dell’intero paese sui tagli all’istruzione pubblica era il vero, primo, ostacolo da superare. Scontrandosi con la diffidenza dei propri coetanei, quell’anestesia totale inflitta loro da anni di bombardamento mediatico, hanno saputo toccare tasti che evidentemente erano ancora capaci di produrre qualche nota, nervi scoperti che hanno spinto insospettabili studenti modello ad afferrare megafoni e striscioni e a convogliare nel nascente movimento.
E’ stato un caso, o forse una conseguenza inevitabile di anni di umiliazioni psicologiche e materiali, che in tutte le città d’Italia si siano date le stesse dinamiche, negli stessi momenti e con le stesse parole d’ordine. Ogni giorno, centinaia di cortei spontanei paralizzavano il traffico cittadino da Nord a Sud, dall’Adriatico al Tirreno, senza soluzione di continuità. Protagonisti di questi estemporanei gesti di rivalsa erano i bambini e i ragazzi dai cinque ai venticinque anni, erano i lavoratori precari della scuola e della ricerca come il personale tecnico amministrativo, erano le mamme e i nonni di quei bambini e quei ragazzi, i loro professori e le loro maestre, i docenti in cattedra da un pezzo come quelli in bilico da anni, tutti uniti nella difesa del loro diritto a lavorare dignitosamente ed essere istruiti con altrettanta dignità.
Metà ottobre. Alla manifestazione dei sindacati di base, mezzo milione di persone si è ritrovato per le strade di Roma, incurante della pioggia che, da lì in poi, non l’avrebbe quasi mai abbandonato. Nasceva la cosiddetta "Onda".
Il governo iniziava a mostrare i primi segni di irritazione. "Facinorosi, disinformati, minoranza manipolata dalla sinistra": tutti eleganti epiteti con cui Berlusconi credeva di poter mettere a tacere la protesta – almeno sul video e sulla carta. E se ciò non fosse bastato, allora avrebbe usato la forza bruta contro gli occupanti, fossero essi mamme, maestre, minorenni o energumeni con caschi e mazze. Anzi no, padròn, con gli ultimi avrebbe chiuso paternamente un occhio, invitandoli ad entrare nelle piazze per poter meglio picchiare passanti e ragazzini.
Tutto questo veniva annunciato – e poi smentito, come solito -, mentre, dall’alto della sua veneranda impunità, Francesco Cossiga elencava candidamente i possibili rimedi per questo increscioso imprevisto; e la sua frase: "il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri" potrebbe quasi essere inserita nel decalogo del perfetto repressore.
Anche se io – e qui apro una piccola parentesi – mi sono fatta un’idea un po’ personale sulle esternazioni dell’Emerito Cossiga. Smascherando pubblicamente gli efficaci metodi di cui sopra – che tra l’altro ricordano moltissimo i giorni più neri di Genova -, io credo che non abbia voluto schierarsi dalla parte del governo. Al contrario, in una certa misura lo ha ostacolato, impedendogli di attuare quel tipo di reazione subdola e illegale che pure – sono certa – era balzata in mente a molti, all’interno dell’esecutivo.
Difatti nessun infiltrato si è messo a spaccare vetrine o picchiare innocenti vecchiette – merito anche dell’imponente servizio d’ordine messo in campo dal movimento. Un gruppo di fascistelli ha cercato di smuovere le acque e far degenerare tutto in violenza; ma è stato respinto con perdite, ed è scomparso leccandosi rabbiosamente le ferite.
Il giorno dello sciopero della scuola indetto dai sindacati confederali oltre un milione di persone ha invaso Roma, e nelle altre città cortei popolatissimi hanno conquistato le prime pagine dei quotidiani nazionali. L’Onda si è imposta sulla scena italiana.
Il governo ha provato a fare un piccolo passo indietro, ma senza troppa convinzione. Trasformando il DL sull’università in un DDL credeva di contentare chi chiedeva un’apertura, chi chiedeva dialogo. Solo che aveva sbagliato interlocutore: il dialogo non lo chiedeva il movimento, ma il PD; quello che il movimento pretendeva era il ritiro delle leggi. Invece la 137 era già diventata 169, in un Senato assediato dagli echi degli scontri, e la 133 restava granitica al suo posto.
Così l’Onda non è arretrata, ma ha invece iniziato i preparativi per le numerose assemblee nazionali che in un paio di settimane hanno permesso alle varie realtà locali di incontrasi, in un crogiuolo complicato di proposte che faticosamente è giunto a stilare dei punti comuni.
Metà novembre. Dopo il successo straordinario dello sciopero delle università, per due giorni la Sapienza ha ospitato l’intera Italia e ha prodotto con lei tre documenti che sono stati – e sono ancora – guida e progetto delle azioni future.
Nel frattempo, si apriva un nuovo fronte: l’Onda era pronta ad associarsi ai lavoratori e alle loro richieste di reddito, welfare e giustizia sociale. Il dodici dicembre, giorno dello sciopero generale, è stato assunto come nuova scadenza in calendario.
Per oltre un mese gli studenti universitari, i medi, i precari e i docenti di ogni ordine e grado hanno lavorato per rinsaldare i legami fra di loro, ignorando le sirene del governo che intanto annunciava contentini a destra e a manca per disunire il fronte. E, cosa importante, hanno preso contatto con quella parte della società più sensibile al loro grido di battaglia: "Noi la crisi non la paghiamo", invitandola e poi guidandola verso lo sciopero generale.
Metà dicembre. Malgrado il maltempo, in tutte le maggiori città d’Italia lavoratori, studenti, migranti, movimenti per la difesa dei beni comuni, docenti, mamme hanno sfilato insieme per ore, mostrando al paese che, dopo tre mesi di agitazione, la voglia di farsi sentire è ancora tanta, e la determinazione a vincere anche di più.
Questa breve cronistoria era dovuta. All’indomani dell’ultimo dietrofront del governo sulla riforma scolastica e dell’annuncio, seppur vago, del ministro Sacconi di un progetto di settimana corta – in controtendenza con la detassazione degli straordinari approvata qualche mese fa -, era importante ricordare da dov’è che si era partiti, e dove si è riusciti ad arrivare. L’obiettivo non è stato ancora raggiunto: rinviare non significa cancellare, né ascoltare veramente le richieste del movimento. La guerra non è ancora vinta, insomma; ma alcuni risultati li abbiamo portati a casa.
Come dice il vecchio adagio: la lotta paga. Ed è fondamentale averlo ben in mente quando ci si lamenta della comune impotenza di fronte allo strapotere governativo. L’idea diffusa che la partecipazione individuale sia ininf
luente viene smentita dai fatti ogni volta che tante individualità si uniscono per partecipare insieme.
Cosa succederà a gennaio? Difficile dirlo. Le proteste certamente continueranno, sebbene la direzione da seguire non sia ancora chiara e definita.
Siamo stati capaci di condensare attorno a noi un numero straordinario di persone, alleandoci con i più disparati soggetti sociali. Sarà possibile proseguire ancora tutti insieme? Quale obiettivo comune ci unirà, stavolta? La crisi diventerà sempre più pesante, sempre più indigesta. Come reagiremo? E’ necessaria una nuova fase d’incontro e di dibattito, perché un progetto reale e definito non esiste: bisogna dunque immaginarlo.
Inoltre, un nuovo capitolo si è già aperto per noi studenti.
In poche settimane siamo passati dall’essere i soli all’essere i primi. Mi riferisco, ovviamente, al panorama europeo, che ha visto lo scoppio di nuove proteste studentesche in Spagna e in Germania – per motivi analoghi ai nostri -, fino ad arrivare alla rivolta greca che, lungi dall’essere una parentesi violenta rigettata dal paese, si è dimostrata capace di raccogliere il consenso di una parte consistente della società ellenica, stanca dei metodi autoritari del proprio esecutivo. Nelle ultime assemblee decine di ambascerie studentesche, provenienti dalla Francia, dall’Inghilterra, persino dagli Stati Uniti, hanno sentito il bisogno di portare fisicamente la loro solidarietà all’Onda italiana, annunciando una primavera torrida in tutta Europa, invitandoci nei loro paesi per combattere insieme una battaglia comune. La sensazione di pagare ingiustamente la crisi scatenata da altri – le banche e gli speculatori, quei criminali giocatori d’azzardo – è dunque diffusa anche oltralpe, e l’esempio italiano sta spingendo centinaia di studenti stranieri ad esternare il loro malessere.
Che tipo di rapporti instaureremo con gli altri movimenti? In fondo, viviamo condizioni molto diverse, e non solo dentro il mondo universitario, che spesso si basa su modelli completamente opposti al nostro – basti pensare all’Inghilterra; anche il quadro politico e istituzionale entro cui ci muoviamo è profondamente differente. Quali sarebbero le istanze che il mondo studentesco universitario potrebbe porre all’Unione Europea? Abbiamo un margine d’azione comune, o è solo il fatto di essere giovani e precari ad unirci? E tutto sommato, perché essere solo giovani e precari non dovrebbe bastare?
Anche se, in questa fase, i dubbi sovrastano di molto le certezze, la consapevolezza di avere per le mani un patrimonio – in termini di numeri e speranze – è troppo radicata nelle nostre coscienze per lasciarla scadere. Non ci resta dunque che dedicare al nostro amato governo l’augurio cantato dai greci: "Merry Crisis, and a Happy New Fear".

(29 dicembre 2008)



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