3.12.08 – Noi e i lavoratori
Il diario dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.
In queste due settimane abbiamo fatto la spola da un problema all’altro, cercando di scandagliare la molteplicità degli interrogativi che ci si ponevano d’innanzi e di trovare loro risposte condivise. La ricerca di una linea di confine che delimitasse gli ambiti d’interesse del movimento ha catturato tutte le nostre forze, andando a confluire in un calendario fittissimo di appuntamenti con i soggetti più disparati.
Alla vigilia del dodici dicembre la situazione che ci troviamo a vivere è la seguente: abbiamo la necessità di prolungare e intensificare – per quanto possibile – i rapporti con gli studenti medi e il mondo della scuola elementare, nostro fedele e principale alleato; dobbiamo ricominciare a coinvolgere attivamente gli studenti universitari che si sono disamorati della protesta, complici pioggia, lauree ed esoneri natalizi; ma soprattutto sentiamo l’urgenza di definire in maniera netta e decisa i nostri rapporti col mondo dei lavoratori, da quelli sindacalizzati al mare magnum del lavoro nero e precario.
Così, mentre il gruppo interfacoltà, su richiesta dell’assemblea d’ateneo, si prepara a scrivere il manifesto-appello della Sapienza in mobilitazione per lo sciopero generale, noi ci dividiamo fra mille incontri e dibattiti alla scoperta del minimo comune denominatore fra i lavoratori e noi. Un binomio che sembra datato, dal sapore vagamente stantio, per certi versi rispolverato dai manuali di storia; eppure sentito come il più importante, il più impellente e naturale fra tutti.
Il dibattito sulle dinamiche con cui questa relazione si manifesta nel concreto è molto acceso, e spesso travalica le mie conoscenze e il mio lessico politico. Mi limiterò dunque a riferire ciò che io, personalmente, ho capito della combinazione studenti-lavoratori in tutto questo benefico e stimolante trambusto – tralasciando, per il momento, i rocamboleschi discorsi che ogni tanto qualcuno fa sul post-fordismo e il capitalismo cognitivo, con i quali ho serie difficoltà a rapportarmi.
C’è chi sostiene che lavoratori e studenti siano ormai la stessa cosa; c’è chi dice che siano ancora profondamente divisi. A mio parere, hanno ragione entrambi; ecco perché.
Come cittadina, ho il diritto di studiare; e difatti sono iscritta all’università pubblica statale. Come studentessa, ho il dovere di studiare. Per fare ciò, non percepisco stipendio, non ho reddito, ma anzi pago tasse, libri, trasporti e quant’altro occorra alla mia formazione. In sostanza: ho bisogno di soldi, e non è sempre chiaro che la fonte dei miei finanziamenti – leggasi: famiglia – sia disposta a fornirmeli. Se, per di più, sono fuori sede, ho da mettere in conto anche un vitto e un alloggio.
Detto ciò, inizio a lavorare. Impieghi precari, e quasi sempre al nero. In questo senso, io sono una lavoratrice. E una studentessa. O meglio, una studentessa che per poter studiare dev’essere anche lavoratrice; o che per poter andare in vacanza dev’essere anche lavoratrice; o che per potersi permettere il lusso di una mostra, di un teatro e di un cinema, dev’essere anche lavoratrice.
Vi posso assicurare che fra ripetizioni, speedy-pizza, pub e ristoranti, non c’è ne uno fra i miei colleghi che non lavori almeno un giorno a settimana, o che non l’abbia fatto, o che non abbia in programma di farlo. Tutti noi lavoriamo già; magari poco, magari saltuariamente, magari facendo cose che esulano del tutto dal nostro ambito di specializzazione. Ma lo facciamo, sempre meno per sfizio e sempre più per necessità.
Continuando a studiare, arriverò alla laurea. Laureandomi smetterò di essere una studentessa/lavoratrice e diventerò lavoratrice a tempo pieno. Per farlo, però, avrò bisogno di accumulare un certo numero di crediti in stage e tirocini; ovvero, dovrò certificare d’aver avuto almeno un’esperienza professionale affine al mio settore – anche se la definizione di "affine al mio settore" è spesso largamente travisabile e travisata. La durata di un tirocinio o di uno stage va dai due mesi – circa – ad un anno: intere settimane nelle quali sarò di fatto a servizio di un’impresa – o chi per lei – senza però percepire stipendio, senza alcun tipo di contributo, con turni di lavoro sfiancanti e veri e propri abissi normativi che permetteranno ogni tipo di sopruso. Viene quasi da rimpiangere il lavoro nero di cui sopra – almeno lì pagavano.
Per tutti questi motivi, chi sostiene che tra lavoratori e studenti non ci sia poi un vero e proprio muro, ma solo una linea di confine peraltro frastagliata, ha ragione. Inoltre, siamo perfettamente coscienti che qualunque sconfitta odierna del mondo del lavoro, qualunque erosione di diritti in questo campo, qualunque problema – insomma – presente e futuro dei lavoratori "tout court" coinvolgerà anche noi, un domani molto prossimo, abbattendosi sulle nostre spalle con tutta la violenza del "precedente" come termine di paragone.
A questo proposito è essenziale ricordare come non si tratti più di un’avanguardia rivoluzionaria (gli studenti) che, forte della sua coscienza, cerca di trascinare una classe subalterna (gli operai) alla rivolta, per pura ideologia. I laureati di oggi non sono più la futura elité di niente, e quando si parla di lavoratori non si parla tanto di operai, quanto di precari e di sommersi – e non c’è nulla di più precario e sommerso del lavoro dei migranti, per dire. La fine che vediamo fare ad altri in parte la stiamo già facendo anche noi, la viviamo sulla nostra pelle. Quindi, dimenticate il sessantotto: qui c’è solo un settore della società (il mondo della formazione e della ricerca universitaria) che chiede ad altri settori (lavoratori stabili, precari, migranti) di mettere in comune le battaglie già esistenti, unendo numeri e forze per ottenere ciò che vogliamo (una gestione della crisi diversa, più attenta alla sfera pubblica e sociale).
D’altro canto, hanno ragione anche quelli che rimarcano differenze e divisioni, e che le ritengono un dato importante, se non cruciale.
All’incontro con i lavoratori Alitalia e F.S. – svoltosi la settimana scorsa alla facoltà di Lettere -, ad esempio, proprio le divergenze su prospettive e possibilità reali hanno conquistato il centro del dibattito. E’ stato sottolineato come noi studenti percepiamo un disagio sì materiale, ma molto meno asfissiante di quello del cassa-integrato con famiglia a carico; noi possiamo permetterci – come individui, con orizzonti singoli di vantaggio e perdita – di rifiutare ogni compromesso, mentre chi ha la responsabilità di coniugi e figli cerca invece la mediazione e la trattativa; noi abbiamo tempo per immaginare le soluzioni ai problemi nella loro globalità, costruendo un disegno generale che può correre il rischio di tralasciare la soddisfazione dei bisogni intermedi, quando gli scioperanti precettati hanno lo sguardo fisso sull’obiettivo concreto e magari si perdono il resto.
Una contrapposizione, anche qui, non rigida, bensì complementare, analizzata con forza proprio da chi, nello stesso intervento, proponeva all’assemblea di riflettere sull’enorme potenziale che le nostre pratiche e le nostre rivendicazioni potrebbero avere, se lasciate libere di confrontarsi e arricchirsi a vicenda.
Da quanto ho sopra esposto, a me sembra inutile, dunque, perdersi in discussioni alla lunga noiose sul perché e il percome di ogni dettaglio del rapporto fra studenti e lavoratori. E’ evidente che la barca su cui stiamo affondando è la stessa: e solo mettendo insieme braccia e teste potremo costruire un’alternativa valida per tutti.
(3 dicembre 2
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