6.03.09 – Un’altra politica è possibile
di Angelo d’Orsi
Un’intera settimana dedicata alla Politica – la maiuscola non è casuale – alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, che si avvia a festeggiare, sul finire dell’anno il suo 40° compleanno: pochi, ma intensi, ove si pensi che si tratta della Facoltà di Bobbio, Firpo, dei Passerin d’Entrèves, Claudio Napoleoni, Siro Lombardini… Anche per difendere il mondo universitario da una indecente campagna denigratoria lanciata dal governo e dalla sua maggioranza, fatta perlopiù di mezze figure allineate e coperte, ma portata avanti robustamente dalla gran parte dei media, che hanno presentato un’immagine caricaturale di quel mondo, dove, come ben sa chi ci vive e lavora, esistono sprechi e ingiustizie, dove non sempre il merito viene adeguatamente valutato, dove il nepotismo è presente (specie nelle Facoltà scientifiche, in particolare in quelle di Medicina, che sarebbe sensato scorporare, proprio come le Facoltà di Ingegneria sono state separate e organizzate in atenei a sé: i Politecnici), dove i concorsi premiano talora la fedeltà e l’appartenenza piuttosto che le capacità… Ma un mondo dove comunque si fa ricerca, si produce sapere critico, si formano cittadini, prima ancora che tecnici di questa o quella disciplina. E, a dispetto della scarsità di risorse, la nostra Università non sfigura affatto in un confronto internazionale: e a coloro che ci forniscono classifiche che vorrebbero dimostrare il contrario, va ricordato che i criteri sono discutibilissimi, e che, per fare un esempio, la statunitense Harvard University ha un budget annuale pari all’intera somma che si spende per tutto il sistema universitario nazionale…
Ciò premesso, perché una Settimana della Politica (con la maiuscola)? Per scommettere sulla possibilità di restituire alla “nobile arte” della grande tradizione classica – da Platone a Machiavelli – la sua dignità di “più architettonica delle arti”, come la definisce Aristotele. Ma quest’arte, che è anche una “virtù”, può essere un sapere, un’epistème? E può essere insegnata? Io credo di sì. E uno dei problemi della nostra classe politica è l’enorme deficit non solo di formazione culturale generale (si ricorderà la celebre inchiesta della "Iene", il programma tv, che mise in piazza la spaventosa indigenza di formazione culturale di base dei nostri deputati e senatori), ma di preparazione specificamente politica. Non a caso la I Edizione delle Settimane della Politica, che vorrebbe diventare un appuntamento annuale, si è conclusa con una tavola rotonda, vivace, ma non sbracata – non da rissa televisiva – intitolata “I politici tornano all’Università”.
L’intento era di provare a riavvicinare la cittadinanza all’Università, ma anche e soprattutto alla politica, facendo capire che non possiamo dire mai “non mi interesso di politica”, perché è la politica a interessarsi di noi, e che lungi dal ritrarsi nella foresta, davanti alla tigre, la tigre va cavalcata. E, per avvicinare alla politica, facendo trasparire una diversa modalità dell’agire nell’interesse pubblico, è sembrato corretto associare competenze diverse – scienziati politici, giuristi, filosofi, economisti, sociologi, storici, letterati –, con varie fisionomie di attori sociali (giornalisti, scrittori, sindacalisti, imprenditori…). Tutti a discutere, per una canonica settimana lavorativa – anzi, oltre, in quanto si è lavorato anche il sabato mattina – sulla politica, ma non in astratto, bensì applicandosi al “caso Italia”, un caso davvero di studio su scala internazionale, su cui si sta accumulando una nutrita bibliografia. E così studiosi e studiose, commentatori, analisti, testimoni, ricercatori in formazione, si sono avvicendati e affrontati, dialogando con il pubblico, mettendo a fuoco i problemi di questo Paese disgraziato. Economia e lavoro, ricerca e scuola, la cittadinanza, il rapporto tra Chiese e Stato, istituzioni, cultura, comunicazione, i partiti, sono stati passati al setaccio per tentare di capire di più, a partire da dati, da elementi di conoscenza, capaci di far passare la discussione dal chiacchiericcio del talk show all’analisi seria, ma in grado di farsi comprendere dai non specialisti.
Il quadro emerso è desolante, fin dalla splendida lectio magistralis di Luciano Gallino, che ha squadernato un Paese corrotto, devastato dagli scempi ambientali, messo sotto tutela dalla criminalità organizzata (che ormai controlla un terzo del territorio nazioale), dove il lavoro sommerso prospera (una quota che è di oltre il 18%, ma secondo altri studiosi raggiunge ormai il 30%), producendo una proporzionale evasione fiscale, che si aggiunge a quella “strutturale”; un Paese di evasori, dunque, e di abusivisti edilizi; un Paese refrattario ad ogni tipo di regole; un Paese dove le leggi si dividono in tre categorie: quelle inutili, la maggior parte; quelle dannose, che vengono applicate; quelle utili e preziose, che sono regolarmente disattese nel disinteresse generale; a cominciare dalla Costituzione Repubblicana, che aspetta ancora di essere attuata, in tanti passaggi essenziali, e anzi è non da oggi posta sotto attacco, proprio per il suo carattere democratico e progressista. E il quadro generale è stato poi nelle sessioni successive arricchito di particolari, di analisi, di approfondimenti sui singoli aspetti del “caso Italia”. Alla fine del lungo esame, ricco di dettagli spesso inquietanti o irritanti, ci si è convinti, come ha detto uno dei relatori, lo storico Paolo Macry, che Berlusconi è precisamente “l’autobiografia della nazione”, nei suoi aspetti più deteriori, ma anche più legati al senso comune, dalla speculazione edilizia al calcio, dalla televisione al machismo, dalla barzelletta alla pacca sulle spalle, dalla corruzione attiva a quella passiva.
Non spetta a me dire se l’esperimento torinese sia riuscito. Ma il tentativo credo meriti attenzione. Un’altra politica è possibile, e un’altra politica che sia una politica alta. Non possiamo rassegnarci a vedere nella politica soltanto marciume, corruttela, mercimonio, affarismo; o spettacolo di leader, spesso costruiti in laboratorio o negli studi televisivi. E se lo è, allora cerchiamo di spazzarla via, ma senza rinunciare ad essa. La politica è non solo l’arte della convinvenza nella polis; la politica è la scienza della corretta amministrazione della cosa pubblica; la politica è scienza del potere, che (Machiavelli insegna) non è un fine in sè, ma un mezzo per far star bene la collettività. Certo, quam mutata ab illa, oggi la politica! Eppure, la politica è necessaria: necessaria, perché insostituibile, ha scritto un maestro proprio della Facoltà di Scienze Politiche, scomparso prematuramente, quasi trent’anni fa, Paolo Farneti. Non possiamo fare a meno della politica, e non dobbiamo farne a meno. Benjamin Constant, un padre del liberalismo moderno, nel 1819, pur avendo lodato le “libertà dei moderni” come libertà private, ossia libertà da impedimenti, contro le “libertà degli antichi”, che erano prevalentemente libertà pubbliche (di partecipare alla cosa pubblica), metteva in guardia contro il pericolo che “assorbiti dalla nostra indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente al nostro diritto di part
ecipare al potere politico”. E invitava a non lasciare la politica nelle mani delle autorità, come esse gradirebbero. Non facciamo loro questo favore, insomma!
La politica, insomma, ci appartiene; e per far sì che essa sia efficace, ma insieme nobile, nutrita di eticità – una politica, per dirla con Hannah Arendt, che non solo abbia uno scopo, ma sia dotata di un senso – occorre un lavoro costante di informazione, di conoscenza, di riflessione documentata che renda non superficiale e puramente emotiva la nostra presenza sulla scena pubblica. A questo sono indirizzate le torinesi Settimane della Politica, un’iniziativa che sarebbe auspicabile si moltiplicasse su scala nazionale. Attrezziamoci per una lunga guerra di posizione, che comincia innanzi tutto dallo studio.
(6 marzo 2009)
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