7.12.08 – Domenici e le catene degli oligarchi
La scena mediatica è occupata dal gesto di Domenici. Incatenarsi davanti alla sede del quotidiano più diffuso e autorevole dell’area di centrosinistra non è davvero cosa usuale. Se lo fa il sindaco di Firenze si deve ammettere che le sue motivazioni possano essere irresistibili.
Non solo per il clamore dell’atto, ma anche per il rischio cui si è esposto, si è indotti a pensare che sia indubitabile l’assenza di interesse privato da parte del sindaco. Ma se si comprende la sua estrema autodifesa, bisogna invece rilevare che il suo gesto disloca sul piano personale una questione che è, nella sua essenza, pubblica.
Perché al centro della vicenda fiorentina non c’è il dubbio sull’integrità del sindaco. C’è invece una montagna di interrogativi sulla classe dirigente fiorentina. E questi si fondano in gran parte sulle sue principali scelte urbanistiche.
E’ pur vero che l’urbanistica fiorentina nasce male fin dall’inizio. Come in moltissimi altri casi, la città costruita nel periodo post bellico ha qualità urbana largamente inferiore alla città precedente. I quartieri più vasti, e in particolare nell’area occidentale allargata verso la piana, sono stati tirati su in base a brutali pulsioni speculative più che a ragionati progetti. Il famoso piano regolatore degli anni sessanta, firmato dal professor Detti, è noto per essere stato snaturato da centinaia e centinaia di varianti. Tutti i piani successivi hanno risentito di questa distorsione e ne hanno rinnovato la logica.
Ma finita la fase, peraltro breve, dell’espansione demografica, si poteva cominciare a ragionare in modo diverso. Invece non è accaduto. L’area Fiat, che l’azienda torinese aveva avuto a bassissimo costo in nome dello sviluppo industriale, dopo la chiusura dello stabilimento è entrata come spazio valutato a peso d’oro nella logica dell’urbanistica contrattata: ti do una parte per usi sociali se nell’altra mi fai guadagnare un sacco di soldi. Nella zona, il nuovo Palazzo di Giustizia spicca per ora come monumento inutilizzato e costoso per la laboriosa manutenzione, necessaria anche se vana. E un nuovo, inutile centro commerciale viene integrato da un gigantesco multisala, iniziato con una sola dichiarazione di inizio lavori, corredata da un solo schizzo e priva di planimetrie. Il Multiplex, bloccato e messo sotto sequestro dalla magistratura, avrebbe fatto chiudere in breve tempo molte sale storiche.
La zona di frangia a nord-ovest, presa com’era tra margine urbano, autostrada, aeroporto e ferrovia, non ha mai potuto essere campagna e non era appetibile come città. Ma, acquisita dalla Fondiaria, la sua destinazione urbana era solo questione di tempo. Ci sono voluti vent’anni e un cambio di proprietà con l’arrivo di Ligresti, un imprenditore che ha subito due condanne per corruzione, il che non ha impedito la sua ascesa nel Gotha della finanza (del resto non è il solo). L’area è ora sequestrata dalla magistratura.
Per portare nella zona una parte delle sue facoltà scientifiche l’Università aveva a suo tempo impegnato fondi cospicui, che sono all’origine dell’enorme debito attuale. I suoi utenti non sono soddisfatti della qualità edilizia e urbanistica dei nuovi edifici. Sta in un semideserto ed è priva di servizi elementari.
Poco più in là, dove era previsto un parco, l’accordo sostanziale di ente pubblico, proprietà e promotori immobiliari (del tutto ignoto all’opinione pubblica) ha immaginato la sua parziale o integrale sostituzione con il nuovo stadio e naturalmente gli immancabili nuovi insediamenti commerciali. Con lo stato dei redditi attuali, e prevedibili nel futuro, resta un mistero quale domanda possa saturare un’offerta così smisurata.
La tranvia, a parte i delicati problemi di attraversamento del centro storico, è fondata sulla moderna concezione italiana del project financing: i privati, indebitati con le banche, mettono i soldi per realizzare l’opera (e resta da vedere quale sarà la gestione dell’indebitamento), ma l’unica cosa sicura è che se l’opera non supererà il minimo delle frequenze quotidiane necessarie a garantire l’attivo, l’ammanco di incassi sarà coperto per contratto dall’ente pubblico. Siamo alle solite: privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite.
E non è tutto. Nei lavori presso la Fortezza da Basso, per parcheggi interrati e uffici commerciali, sono stati compiuti grossolani errori di progetto; i volumi costruiti hanno dovuto subire ridimensionamenti che hanno causato pesanti aggravi di spesa. La Firenze Parcheggi ha privatizzato con le sue righe celesti il suolo pubblico e ha costruito parcheggi che vanno semideserti per il costo troppo alto. Ci sarebbe altro ma fermiamoci qui.
Va osservato, troppo brevemente per ragioni di spazio, che le iniziative avanzate dai numerosi comitati attivi, in città e nel circondario, sono state accolte all’inizio con cautela sospettosa: l’impegno del Forum per Firenze, promosso da movimenti e associazioni, fu rapidamente circoscritto, sterilizzato e infine liquidato. Negli anni successivi critiche e controproposte avanzate dagli stessi soggetti sono state accolte dal comune quasi sempre con disinteresse sprezzante e esplicito fastidio.
Di recente, osservatori privi di ostilità preconcetta, come Sandra Bonsanti su Repubblica e Paolo Ermini sul Corriere, hanno messo in luce che anche la sintesi più neutra sull’urbanistica fiorentina non può negare che in essa ha regnato un blocco di potere opaco che ha preso decisioni non trasparenti, realizzate, va aggiunto, da un numero strettissimo di imprese predestinate.
Ora i casi generati da questo monopolio politico-affaristico si incrociano fatalmente con il momento della selezione delle candidature da proporre nelle prossime amministrative.
L’incatenamento di Domenici potrà forse aiutare la rivendicazione della sua dignità personale, ma non fa fare un solo passo verso la soluzione del problema politico. L’urbanistica fiorentina resta un caso esemplare negativo. La selezione della classe dirigente fiorentina resta nonostante tutto affidata a un cerchio ristretto e chiuso di soggetti.
Tuttavia il peso del contesto si impone inevitabile. Il Partito Democratico fiorentino ha dovuto rapidamente prendere atto di quanto si sia aggravata tutta la questione. Pare pronto a rinunciare alle primarie di partito e a riscoprire l’utilità di primarie di coalizione. Ciò significa sacrificare almeno due candidature sulle quattro precedenti, ma non è detto che con la rinuncia venga meno anche la presunzione oligarchica. Il caso bolognese è un esempio da evitare: pur nelle difficoltà di individuare un successore convincente di Cofferati, la candidatura del professor Pasquino è stata boicottata e impedita. Sarebbe increscioso se il ripensamento del PD fiorentino restasse tutto chiuso nelle sue mura e non aprisse a un dialogo veramente aperto con tutta la cittadinanza attiva che teme la perdita della città e la sua consegna alla retorica berlusconiana sulla necessità di detoscanizzare l’Italia. Si può assistere inerti a questo rischio? Si può permettere che la lotta tra le correnti di partito lo renda ancora più incombente?
Non è giunto il momento di rinunciare alla pretesa oligarchica e di aprire alla possibilità di uno scatto creativo?
Pancho Pardi
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