8.01.09 – Percepire l’ingiustizia
Il diario dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.
Quello che più mi ha colpito, ieri, mentre sotto il porticato di Galleria Colonna distribuivo volantini mezza bagnata – come al solito – e un po’ infreddolita, sono state le facce della gente. Le espressioni delle persone che mi passavano accanto, nel marasma di Via del Corso, gettando un occhio distratto alla fila di poliziotti che bloccava un centinaio di noi con un cordone. La fretta innaturale delle donne impellicciate che puntavano a Zara e fissavano il loro sguardo deciso sulle vetrine con sopra scritto: – 50%.
Sembravano tutti arrabbiati. Mi sono chiesta se appaio anch’io tanto scocciata quando mi sposto da un luogo all’altro, quando cammino a testa bassa per le strade affollate di Roma. Per un secondo ci osservavano, e si sorprendevano di vederci lì; ma subito distoglievano la loro attenzione per riporla nuovamente nella meta.
Tutti sappiamo che fine facciano i volantini distribuiti per strada: il cestino tre passi più in là è, quasi sempre, la loro unica destinazione. E’ dunque usuale veder scuotere la testa e declinare con un cenno sconti, pubblicità, annunci di saldi stratosferici o liquidazioni totali. Ma io mi ero messa in testa di penetrare la spessa barriera del disinteresse.
"Signore, vuole un volantino? Guardi che è interessante, sono cose che sui giornali non trova."
"No, non ho le mani", mi ha risposto una signora stracarica di buste. "No, grazie", è stato l’educato diniego di un tredicenne agghindato a festa. E poi una sfilza di "No, no" frettolosi e impacciati, che aggiungevano un supplemento di irritazione al rifiuto canonico. Una signora elegante con figlia adolescente a seguito ci ha gettato uno sguardo di profondo disprezzo; la figlioletta è rimasta attaccata alla schiena della madre, senza mai voltarsi. "Non le fa mica male al cervello!", ha sbottato una ragazza del mio gruppo, allegramente offesa.
C’era chi alla fine cedeva, e lo afferrava sospirando; c’era anche chi lo afferrava sorridendo – a onor del vero. Una anziana, molto truccata, con una tinta improponibile e un enorme cappotto verde ha iniziato un breve dibattito con una mia compagna. Un gruppo di ragazzi vestiti di tutto punto, un paio di coppiette con i capelli laccati, le scarpe alla moda e le borse più in è rimasto allibito. "Cos’è?", ha chiesto. Gli è stato spiegato. Hanno accettato un volantino per uno e si sono fermati in un angolo, leggendo avidamente. C’erano poi quelli che tornavano, distrutti, dal lavoro. E lo prendevano senza discutere, con un’aria affranta che non accettava repliche.
E noi, sinceramente sconvolti dalla tempistica della pioggia romana, continuavamo a porgere le nostri voci di carta ai passanti. Il sit-in di ieri a Montecitorio e il successivo volantinaggio sono stati organizzati in una mattinata. Ma non solo per questo eravamo pochi; molti sarebbero venuti volentieri, ma erano ancora in famiglia, fuori città. L’università è deserta. Non è un caso che il voto di fiducia sul DL 180 sia stato programmato per il sette gennaio, a ridosso dei bagordi di Natale.
Che poi, bagordi. Non sempre e non per tutti. Mentre la follia mediorientale imperversava sulle prime pagine dei nostri quotidiani, riempiendo ogni morso del cenone di amarezza, le cronache locali erano spesso puntellate da altre tragedie, più intime, più familiari, ugualmente dolorose. Suicidi. Un pensionato, un disoccupato del pistoiese, il tentativo di un operaio oberato dai debiti che non aveva soldi per fare i regali alle figlie. Ma non solo i soggetti cosiddetti a rischio: anche liberi professionisti che, colpiti dalla crisi, hanno deciso di togliersi la vita. E’ il caso di un pubblicitario padovano alla ricerca di un impiego, che non ha retto allo stress delle bollette. Senza contare il caso di quella donna abbruzzese, malata, con 250 euro di pensione mensile d’invalidità, che chiede di morire dalle pagine de "La Repubblica": non può pagarsi nemmeno il viaggio per raggiungere l’ospedale.
Ha chiesto alla regione un’indennità per l’accompagnamento; le è stata negata. La sanità abbruzzese, si sa, è ancora gravemente scossa dagli scandali di questi ultimi mesi, svuotata dalla corruzione che l’ha dominata per anni. E così non può più permettersi di fare il suo dovere, di adempiere al suo ruolo di servizio pubblico. La donna denuncia il vuoto che la circonda, la carenza di un qualsivolglia ammortizzatore sociale; e ora chiede una morte dignitosa, almeno, se proprio non la si vuole curare.
Se è vero che ammazzarsi è una pratica antica, e c’è stato chi l’ha fatto prima, senza crisi economica e senza troppo scalpore, è pur vero che il peso dato ai suicidi può variare a seconda delle convenienze. Lucrare sui morti è una pratica anch’essa datata, d’altronde, il cui evidente squallore non ha mai frenato le lingue dei politicanti. Mi vengono in mente le vesti stracciate e i petti battuti degli uomini di questa destra – garantista fino all’impunità – ogni volta che si parla di Mani Pulite. I suicidi di alcuni che intrecciarono le indagini vengono ancora oggi portati ad esempio della furia giustizialista del pool di Milano. Quei suicidi, ritenuti omicidi, sono dunque uno scandalo nazionale e fanno parte della mitologia contorta di questa maggioranza, che del motto "due pesi e due misure" ha fatto un proclamo ideologico.
La pressione della vergogna per i reati commessi è giudicata motivo insindacabile d’indignazione, e quei decessi hanno a tutt’oggi grande risonanza nei mezzi di comunicazione. E io non voglio negarla loro, non m’interessa; vorrei semplicemente che la medesima attenzione fosse conferita anche a questi ultimi, umili esempi di rassegnazione. Per me è assurdo che, di fronte all’assenza assoluta di speranze, di fronte alla mancanza di qualunque prospettiva, di fronte alla solitudine e al vuoto che hanno spinto delle persone all’atto estremo del togliersi la vita – sancendo così il fallimento della società che li attorniava -, non vi sia nemmeno un minuto di riflessione, nemmeno un secondo per pensare se non v’è colpa anche da parte dello Stato, e se c’è, dov’è. La disoccupazione non è una bestia anomala nei paesi occidentali; capita di trovarsi a spasso, senza un impiego. E’ la certezza di non poterne trovare un altro, di non poter recuperare la dignità perduta che sconcerta; l’assoluta sicurezza che non ci sia nulla da fare, che tutto andrà peggio, che non c’è un futuro.
I malesseri individuali s’intrecciano così con i problemi dello Stato. Il caso abbruzzese in questo senso è emblematico: la mala gestione della sanità regionale, la corruzione diffusa sono causa dell’acutizzazione delle sofferenze fisiche e morali di una donna che avrebbe il diritto ad essere aiutata – la sanità è pubblica proprio per questo -, ma non può esercitarlo per l’avidità e la sconsideratezza della nostra classe politica. E questo è profondamente ingiusto.
Mi chiedo come sia possibile considerare tutto ciò un affare altrui, o di poca importanza. Quello che manca, qui, non è tanto una visione politica di solidarietà, né un concetto democratico di fratellanza, non è il sostegno di un’ideologia ad essere carente. E’ proprio l’umana, immediata, naturale percezione dell’ingiustizia. Quel tipo di empatia che dovrebbe immediatamente riscattare i nostri sensi, se non fossimo così rimbecilliti dalle lucine delle feste, dagli specchietti dei saldi, dal tam tam della vita privata. Il sentirsi – anche solo un momento – non dico in colpa per il fatto di star meglio, ma quantomeno in dovere di ut
ilizzare la propria relativa serenità per occuparsi di questioni che riguardano tutti in quanto cittadini di un medesimo paese. E’ ingiusto: è così difficile dirlo? Ma soprattutto, è così difficile sentirselo addosso? La sfortuna è inevitabile: quando colpisce, non ci si può sottrarre. Ci sono cose che non si possono cambiare. Ma altre sì, invece! E’ così assurdo tentare di farlo? Provare a migliorare di poco questo mondo, che la sorte rende già abbastanza buio. Non serve forse a tutti, evitare che l’ingiustizia domini senza appello la realtà? Non potremmo tutti finire un giorno sotto i suoi strali?
Per questo un po’ di rabbia la fa, vedere tante facce impegnate nello spendere, spendere, spendere, senza un momento di sosta, agitandosi come tante formichine impazzite per le vie di un centro fin troppo colorato. Vedersele sfrecciare accanto, e ritrovarsi a urlare: "Un minuto, solo un minuto" per leggere quattro righe, interrompere il flusso stordente della quotidianità, fermarsi e informarsi, un minuto per fare qualcosa di diverso dal pensare alla soddisfazione immediata dei propri sfizi.
Da Galleria Colonna ci spostiamo a Piazza San Silvestro. Ha ricominciato a piovere, i volantini si stanno bagnando. Mi viene incontro un uomo che cammina svelto, un giornale in testa per ripararsi dall’acqua. Ho come l’impressione di conoscerlo. "Signore, un volantino? E’ interessante." Glielo porgo; un po’ impacciato borbotta un "vabbé", lo prende e scappa. Finalmente lo riconosco: è un deputato del PdL; sta andando alla Camera per la votazione. "Se lo legga bene!", gli urlo dietro. Lui prosegue.
Faccio in tempo a vederlo sorridere mentre si allontana.
Gaia Benzi
(8 gennaio 2009)
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