9.12.08 – Il recupero della democrazia

MicroMega

Il diario dal movimento di Gaia Benzi, studentessa di lettere e filosofia all’Università La Sapienza di Roma.

In quest’ultima settimana ho avuto l’occasione di assistere ad alcuni importanti momenti di dibattito interno. Uno ha riguardato il movimento e la sua auto-organizzazione, nell’ambito di un workshop sulle forme che vorremo assumere nei prossimi mesi per rendere stabile ed efficace la protesta, nonché garantire la trasparenza di tutti i processi decisionali che avverranno al suo interno. L’altro ha invece coinvolto Tullio de Mauro, che ci ha voluti incontrare per condividere con noi i suoi dati, i suoi anni di studio, la sua conoscenza in merito all’istruzione e all’alfabetizzazione italiana.
Due occasioni di crescita personale e collettiva che sembrano all’apparenza lontane anni luce, non solo per le tematiche che hanno affrontato, ma anche per i metodi con cui queste sono state sviscerate: un gruppo di lavoro l’uno, una conferenza l’altro; un incontro fra coetanei il primo, una lezione di esperienza il secondo; da una parte il dialogo, dall’altra l’ascolto.
Eppure tornata a casa, il blocco degli appunti in mano, scorrendo le pagine di riflessioni che avevo accumulato, mi sono resa conto che mai due eventi e due discussioni avrebbero potuto essere più affini.
De Mauro era stato invitato per parlare delle classi ponte, della nuova politica di stampo reazionario e razzista che questo governo sta mettendo in atto nelle scuole primarie. Era venuto a portare la voce – si sarebbe detto – di tutti quei linguisti e quegli studiosi di pedagogia che si sono adoperati per smontare, pezzo dopo pezzo, la delirante teoria leghista del nuovo apartheid come forma di integrazione; quella stessa teoria che vorrebbe la segregazione dal contesto italofono come incentivo all’apprendimento dell’italiano stesso: un vero e proprio assurdo logico.
Ma, presa la parola, ha chiesto il permesso di fare un discorso più generale, ovvero di affrontare il problema dell’istruzione italiana nel suo complesso e toccare solo in chiusa il sopracitato e specifico argomento. Richiesta, questa, che noi abbiamo accolto volentieri.
De Mauro ha iniziato analizzando gli ultimi dati ISTAT sulla situazione educativa formale italiana: secondo l’agenzia statistica nazionale il nostro paese possiede un 7,5% di laureati – percentuale inferiore a quelle degli altri paesi industrializzati -, un 25,8% di diplomati, un 30,1% con diploma di scuola media inferiore, un 25,4% col solo diploma elementare e un 11% senza alcun titolo di studio o, addirittura, analfabeti. Cifre che meriterebbero un’attenzione del tutto particolare, perché descrivono una situazione poco felice: solo il 33,2% degli italiani ha superato con successo l’esame di maturità, e solo 63,3% è in regola col dettato della costituzione, che prevede un minimo di otto anni di istruzione inferiore (art.34). Dati che non collimano con la definizione di paese civile che dovrebbe esserci propria – anche se mostrano il decisivo passo avanti che la scuola pubblica italiana è riuscita a far fare a questo paese negli ultimi 50 anni, partendo da una percentuale di analfabeti del 59,8%.
Basterebbe questo per indurre chiunque si occupi di istruzione in Italia ad una serio ripensamento delle politiche di sostegno agli organi educativi, ovviamente non nella direzione dei tagli, ma in quella del finanziamento. E’ palese che la scuola – di ogni ordine e grado – ha bisogno di più risorse per migliorare l’offerta formativa, ed attrarre quegli studenti che, ancora oggi, abbandonano gli studi prima del tempo.
Ma non è tutto. A fianco di questa panoramica ufficiale – che si basa su diplomi e pezzi di carta -, vi è un’altra indagine, questa volta condotta in maniera comparativa da organizzazioni internazionali, attraverso la somministrazione di questionari che miravano a verificare non quali titoli di studio possedesse, ma quali fossero le effettive conoscenze della popolazione tra i 15 e i 65 anni. Se prima un barlume di speranza poteva anche trovare spazio nelle nostre menti, queste cifre hanno il potere di fare terra bruciata attorno a loro, e metterci di fronte alla sconcertante realtà dei fatti: siamo un popolo profondamente ignorante. Nel senso tecnico del termine, ovvio, non umano: la saggezza popolare sfugge agli indovinelli e alle crocette; ma da sola – altrettanto ovvio – non basta. Una serie di fogli, con vari livelli di difficoltà sono stati preparati e diffusi a campione. Il primo livello era di comprensione minima dei segni linguistici (alfabeto, parole) e matematici: un 5% è risultato completamente analfabeta. Un 33% non è riuscito a superare il secondo livello, dove le competenze richieste erano di natura elementare – "Il cane mangia l’osso"; domanda: "Cosa mangia il cane?". Un altro 33% non ha superato il terzo, che all’esempio di cui sopra aggiungeva poca roba. Solo un 29% dei partecipanti, insomma, si è rivelato essere al di sopra della soglia delle competenze giudicate minime per interagire correttamente con i dibattiti e le informazioni delle moderne società industrializzate. Tali risultati si devono al fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, ovvero alla perdita naturale di quelle facoltà che, se non esercitate, regrediscono di un minimo di 5 anni rispetto al massimo grado di acquisizione – stima, questa, che de Mauro ha sottolineato più volte essere ottimistica.
Se a tutto ciò aggiungiamo che solo il 33% degli italiani si può definire lettore – di libri o quotidiani -, e che più del 79% di essi ha in casa meno di cento libri, beh, il quadro è completo.
Allora viene da chiedersi: quando parliamo di politica, di che stiamo parlando? Quando parliamo di finanza, di economia, di soluzioni alternative alla crisi globale, a chi ci stiamo rivolgendo? Come possiamo pretendere che l’intera nazione partecipi alla discussione e quindi alla scelta, quando il 71% di noi sa a malapena contare i soldi in busta paga? E quando parliamo di democrazia – ha giustamente chiesto infine Tullio de Mauro – a che idea ci stiamo rifacendo? All’idea formale della suddivisione dei poteri, all’organizzazione dei meccanismi decisionali, alla strutturazione delle cariche? Perché se sì, l’Italia è in tutto e per tutto una democrazia. Ma se questo non dovesse bastare, se noi parlando di democrazia volessimo riferirci allo spirito della carta costituzionale, che vuole i cittadini partecipi della vita politica in tutte le sue forme con la piena coscienza e la piena consapevolezza dei propri diritti e doveri, data dal possesso degli strumenti atti a comprendere la realtà, allora tale definizione sarebbe inapplicabile al nostro paese – e forse non solo oggi che queste destra è al potere, aggiungo io; forse da sempre.
E potremmo continuare ad interrogarci: qual’è la causa di questa disastrosa condizione – non riscontrabile, non a questi livelli, negli altri stati industrializzati del mondo? La scuola fa il possibile, con i mezzi che ha e per il tempo che deve; si occupa dei bambini, dei ragazzi, ma non riesce – non può – occuparsi degli uomini e delle donne. De Mauro, a questo proposito, indicava quali necessarie soluzioni la creazione di molti centri pubblici di lettura, e di un programma educativo per adulti: giustissimo e sacrosanto.
Ma forse, per tanti versi, insufficiente. Forse non basta scolarizzare i cinquantenni per cambiare le cose. Forse non è solo la mancanza di biblioteche che ha impedito all’Italia intera, come nazione, di emanciparsi dalla sua storica e ciclicamente denunciata condizione servile.
La politica istituzionale ha ovviamente la sua dose massiccia di colpe. E la televisione pubblica, gli organi d’informazione hanno certo una responsabilità immensa. Ma, a mio parere, non possono addossare le carenze culturali del paese esclusivamente a questi due soggetti: è l’intera classe intellettua
le italiana a dover condividere con loro il carico. E per classe intellettuale intendo tutta quella fascia di persone pagate per pensare con la loro testa e riferire agli altri il proprio pensiero, sia esso in campo artistico o giornalistico, filosofico o divulgativo, o insomma politico in senso lato. Nel suo implicito statuto sociale, tra le funzioni del ruolo che ricopre sta – volente o nolente – un dovere formativo, costante, dal quale, a mio parere, non può assolutamente esimersi. E invece di parlare in maniera semplice ma non semplicistica, corretta ma non eccessivamente tecnica, forbita ma non gradassa nel suo sfoggio di cultura, in questi anni o si è preclusa il dialogo con la società – rifugiandosi nella famosa torre d’avorio -, oppure ha giocato a ribasso, apparendo più volgare ed ignorante di chi quella volgarità e quell’ignoranza aveva il diritto di veder riscattata attraverso di lei. A parte lodevoli eccezioni, la stragrande maggioranza di coloro che oggi è pagato per pensare pensa con teste altrui, e parla di conseguenza, asservita a quella logica infame che vuole non la comunicabilità, ma la vera e propria grettezza diffusa ovunque, affinché l’ascoltatore si senta gratificato dal solo gesto di ascoltare, credendo di essere più intelligente di colui che sente parlare e coltivando l’illusione di avere gli strumenti necessari per comprendere la realtà. Una specie di iniezione di falsa autostima, l’illusione del controllo e persino della sovranità, che ha avuto – nel tempo – il potere di svuotare di significato i fondamenti della Repubblica. Un’elargizione gratuita e colpevole di miseria che ha dato vita ad un meccanismo perverso, nel quale prima si tolgono gli strumenti al popolo per poi avere lo spazio di dire: "non sa, non può sapere".
E invece potrebbe.
Così, mentre noi ci interroghiamo sui meccanismi di delega, sui portavoce, sulle possibilità e i limiti di forme dirette e indirette di democrazia, mentre accumuliamo assemblee su assemblee e discutiamo di tutto, mentre comprendiamo che la vera libertà sta nella piena condivisione, ma pure che la condivisione non può prescindere dalla trasparenza, dalla verifica e dalla comunicazione capillare e totale, ebbene, mentre noi recuperiamo il senso delle forme democratiche, piano piano ci rendiamo conto di doverne recuperare soprattutto la sostanza, di dover ricostruire i principi stessi che a quelle forme hanno dato vita. E con una punta di amarezza comprendiamo quanto la nostra intuizione originaria fosse vera: la battaglia per un’istruzione migliore – a tutti i livelli – è il primo, indispensabile passo verso una democrazia migliore.

Gaia Benzi



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