A bigger splash: dalla performance della pittura alla pittura della performance
Luisa Lorenza Corna
Alla Tate Modern Gallery di Londra la mostra "A Bigger Splash" cerca di rintracciare i risultati delle contaminazioni tra pittura e performance nella seconda metà del Novecento. Partendo dall’action painting di Pollock, si giunge, attraverso una fitta sequenza di opere, a lavori più recenti che divengono scenario teatrale.
L’opera Summertime 9A di Jackson Pollock apre la mostra "A Bigger Splash, Art After Performance" ospitata alla Tate Gallery di Londra fino al primo di aprile di quest’anno. L’esposizione si propone di indagare la relazione tra pittura e performance e, più specificamente, di ricostruire come quest’ultima abbia modificato ed espanso i confini dell’arte pittorica a partire dagli anni cinquanta. Esordire con Pollock appare perciò tanto doveroso quanto prevedibile. E’ infatti l’artista americano a portare a compimento quello che il critico Clement Greenberg definì nell’omonimo saggio The crisis of the easel picture (1948), ovvero la crisi del dipinto da cavalletto, dalle dimensioni limitate e tradizionalmente destinato all’affissione a parete. Non a caso, all’interno della mostra, il quadro Summertime 9A è appoggiato al suolo, di fronte al video in cui Hans Namuth e Paul Falkenberg (Jackson Pollock 51, 1951) ritraggono Pollock all’azione, mentre cammina attorno alla tela e vi lascia sgocciolare la pittura con l’ausilio di un bastone. Piuttosto che al risultato finale, i registi sembrano interessati a documentare il processo, che consiste in energici mescolamenti del colore, rapidi passi lungo la tela, e una serie di regolari volteggi del polso e della mano. Esposto insieme al video di Namuth e Falkenberg, Summertime 9A appare, così, la mera registrazione pittorica dei movimenti dell’artista, la traccia grafica della sua performance. E la disposizione del dipinto a terra, metaforicamente “ai piedi” dello schermo, mette in risalto, ulteriormente, quest’inversione tra risultato e processo.
Nella stessa sala, sul lato opposto, campeggia il dipinto da cui prende nome l’esposizione. A Bigger Splash di David Hockney ritrae uno scorcio di una villa con piscina, elemento distintivo del paesaggio della baia californiana, dove l’artista inglese si trasferisce negli anni sessanta. Attraverso questo dipinto, Hockney cerca di rappresentare l’istante successivo ad un lancio in piscina, quando il corpo di chi si tuffa scompare per qualche secondo sotto la superficie dell’acqua, generando un getto verso l’alto. Combinando linee sottili, piccole chiazze ed ampie pennellate bianche che si diradano mano a mano che ci si allontana dal punto di contatto tra corpo e superficie, Hockney cerca di fissare il moto veloce ed irregolare dello Splash. Non vi è tuttavia, da parte dell’artista, alcuna volontà di riprodurre fedelmente l’evento reale, ma piuttosto il desiderio di dare forma alla propria percezione di tale movimento. Hockney nota, infatti, che fissando fotograficamente il momento dello splash, si giunge ad un risultato molto lontano dall’esperienza umana dello stesso fenomeno, che lui intende invece presentare direttamente sulla tela.
Sia Pollock che Hockney cercano, seppur con tecniche e tempi differenti, di produrre il movimento, di sfuggire, inevitabilmente fallendo, alla separazione tra realtà e rappresentazione (e quindi a quella tra moto e stasi) tradizionalmente sottointesa al medium pittorico. A dispetto della dissonanza visiva, i getti di colore di Summertime 9A e le pennellate pazienti del quadro di Hockney, risultano quindi essere mossi da simili intenzioni.
Ci si potrebbe azzardare a definire questa sala come il nucleo concettuale dell’esposizione, poiché e qui che si profilano con maggiore chiarezza le questioni cardine dell’intero progetto espositivo. Quanto più ci si inoltra nella mostra infatti, tanto più il disegno curatoriale si confonde, ed il numero di opere per sala aumenta mettendo a dura prova l’attenzione del visitatore. Permane tuttavia un nesso concettuale forte tra prima e seconda sala, dove è raccolto un gruppo di opere che si collocano ad uno stadio successivo nel processo di espansione del medium pittorico intrapreso da Pollock.
Queste prime due sezioni della mostra sembrano suffragare la teoria post-mediale della critica americana Rosalind Krauss, secondo la quale il medium non corrisponde alla tecnica di esecuzione o alle caratteristiche fisiche dell’opera, ma piuttosto all’insieme di convenzioni e possibilità che derivano (senza tuttavia coincidere) dalle stesse condizioni materiali. E come dimostrano le opere esposte nella seconda sala, tra le possibilità che scaturiscono da queste proprietà fisiche, vi è in ultima istanza, anche quella della loro distruzione. Durante le performance Shooting Pictures documentate in mostra per esempio, Niki de Saint Phalle spara con una carabina a delle tavole di gesso su cui pendono sacchi riempiti di pittura, che esplodendo la lasciano colare sulla superficie del “quadro”. Quel che resta dopo la performance sono tavole lacerate, dove rigagnoli di colore sembrano fuoriuscire dai fori lasciati dai proiettili (Shooting Picture, 1961). Shozo Shimamoto invece, perfora meccanicamente un foglio di alluminio fino a comporre una griglia ortogonale (Holes, 1953), oppure incolla pagine di giornale che poi strappa irregolarmente dando origine a una superficie che richiama la forma di crateri e rilievi lunari. Poco più in là troviamo la Pittura Industriale di Pinot Galizio, tentativo dell’artista italiano di automatizzare la pratica pittorica, eliminando in questo modo non solo gli strumenti tradizionalmente associati a questa attività, ma la figura stessa dell’artista (Pittura Industriale, 1958). Infine, un breve video documenta la performance Anthropométrie de l’époque bleue di Yves Klein, dove un gruppo di modelle coperte di colore si appoggia sulla tela lasciandovi le proprie impronte. Scompare quindi qualsiasi intermediazione tra il soggetto che dipinge e l’oggetto su cui si esercita l’azione: il corpo si fa “pennello” e marca direttamente la superficie pittorica.
Klein anticipa il tema dominante delle tre sale successive, ovvero la relazione tra pittura e corpo umano, che da strumento per dipingere diviene ora supporto, superficie tridimensionale che l’artista altera fino a sfregiare. Come in un rito sacrificale, nelle performance dei membri dell’azionismo viennese Herman Nitsch ed Otto Muehl, i corpi dell’artista e dei partecipanti vengono immobilizzati, cosparsi di colore, sangue e frattaglie di animali morti. Günter Brus cammina invece per la città di Vienna totalmente ricoperto di pittura bianca con una linea nera che gli attraversa il corpo da capo a piedi (Self Painting, 1964). L’intervento pittorico spogliato di qualsiasi finalità rappresentativa, anche astratta, serve piuttosto a nascondere le fattezze di Günter Brus, trasformandolo in una generica e spettrale figura umana.
Il tema della sparizione dell’artista ritorna, con toni meno brutali, anche nel lavoro di Geta Bratescu, esposto nella quarta sala insieme ad un gruppo di opere ch
e sempre di più abbracciano la dimensione teatrale. Nella performance Towards White (1975) Bratescu ricopre il suo studio di fogli bianchi, con i quali confeziona poi un costume che le consente di mimetizzarsi con lo sfondo. La superficie su cui l’artista agisce non è più solo quella del suo corpo, ma si estende all’intero spazio circostante. Poco più in là in Simmering (1970), Sam Gilliam sfida la tradizionale bidimensionalità della tela, cercando di metterne in risalto peso e volume. Appendendo per un solo angolo un drappo di tela dipinta, l’artista americano ottiene una forma scultoria fatta di pieghe e drappeggi che ricorda, forse non a caso, un sipario.
La parte conclusiva della mostra ospita infine un gruppo d’installazioni di artisti contemporanei, che richiamano nuovamente lo spazio teatrale. L’artista francese Guy de Cointet, per esempio, progetta per le sue performance costumi e scenografie altamente stilizzate, fatte di oggetti ridotti a puri volumi che sembrano trasposizioni tridimensionali di quadri costruttivisti. La pittura ritorna quindi prepotentemente “in scena”, divenendo lo spazio entro il quale si svolge la rappresentazione. Tramite le sue performance, de Cointet ci suggerisce che il tentativo di far coincidere arte e vita, già cercato nelle prime opere esposte, porta con sé il rischio di un mondo completamente trasformato in arte. Non a caso l’ultima sala ospita un immenso trompe l’oeil di Lucy McKenzie, raffigurante le pareti interne di un antico palazzo. Tale è la verosimiglianza del dipinto con lo spazio reale, da indurci a pensare, per qualche istante, di essere già fuori dalla mostra.
(25 gennaio 2013)
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