A trent’anni dalla legge 180, una testimonianza
Riceviamo da un lettore e volentieri pubblichiamo.
In questi giorni cade il trentennale della legge 180, che con l’apertura dei manicomi riportava all’interno della società ciò che fino ad allora era custodito all’interno di strutture chiuse.
Da circa 28 anni lavoro all’interno di una struttura che, sin dagli albori della legge, è stata in prima linea per l’applicazione dei principi e delle intuizioni di Basaglia. Da noi venivano ricoverati tutti i casi che venivano rifiutati da altre strutture, e le persone arrivavano da tutta Italia, isole comprese, anche con storie particolarmente complicate e da ambienti molto degradati.
La malattia mentale è un mondo che da sempre si tiene al coperto dalla curiosità e dalla morbosità di coloro che, per loro fortuna, ne sono fuori, ma per chi ne è coinvolto rimane una cosa da lasciare ad altri. Ecco, per tanti anni mi sono occupato e sostituito nei compiti di genitore, sono stato mani e occhi di chi altrimenti non sarebbe vissuto. E non parlo solo di sottoproletariato, ma anche di funzionari pubblici, giornalisti, capitani d’industria, che negli anni sono passati tra le mie mani, come quelle dei miei colleghi. Perchè il lavoro di gruppo in equipe è la soluzione dove vari specialisti si confrontano su come affrontare una specifica emergenza, e dove noi operatori siamo gli occhi di coloro che fatalmente non possono
vigilare 24 ore su 24, e perciò calibrare e dosare in itinere le risposte permette una cura costante. Ho potuto constatare di persona l’ostilità del mondo intorno a noi, gli sguardi delle persone che vedevano i nostri ragazzi per la prima volta nei mercati o nelle zone dello shopping come degli alieni caduti dal cielo.
Sono stati anni esaltanti dove si è cercato di rimettere al centro la persona, con tutti i suoi limiti, mentre oggi per le stesse problematiche si discute sul quanto rende, e fa niente se poi a conti fatti uno si prende una badante in nero, salvo poi lamentarsi sul fatto che in giro è pieno di rumeni, dicendo che certi lavori gli italiani non li fanno più. Balle, gli italiani non si occupano più di certi lavori perchè sono stati svuotati di ogni professionalità e gratificazione, rendendoli poco appetibili in un mondo del lavoro dove c’è gente disposta a fare le marchette per potersi permettere l’ultimo cellulare griffato, o le scarpe alla moda. Il mondo clericale ha preso il sopravvento ponendosi, nei modi e nelle forme che vediamo tutti i giorni, con disabili sballottati tra un viaggio a Lourdes ed una capatina a S.Giovanni Rotondo in cerca di una grazia da richiedere.
(23 maggio 2008)
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