Abrogare aude! La didattica a distanza nell’epoca del distanziamento

Paolo Piccolella

Ore 18: lezione di filosofia con la quinta liceo Oggi parliamo di Nietzsche. Ore 18? Che orario è per una lezione di liceo scientifico? E per giunta, per parlare della “filosofia del mattino”? Beh, tra i tanti adattamenti dell’attuale didattica a distanza ai tempi della pandemia vi è quello dell’orario. Gli studenti in questi giorni, un po’ come tutti noi, hanno cambiato abitudini, e se già di norma arrivavano mezzi addormentati in aula alle 8 di mattina, adesso ci adattiamo anche noi docenti. E volentieri. L’orario delle lezioni a distanza non è certo quello pieno dei tempi normali e richiede una buona dose di versatilità innanzitutto da parte di noi insegnanti.

Subito, nei primi giorni della chiusura delle scuole c’è stata una grande agitazione tra colleghi per come fare, per quale fosse la piattaforma migliore, per gestire un nuovo orario, per accordarsi con gli altri e con i ragazzi su quante e quali lezioni fare, sui compiti e i materiali da assegnare. Un gran vociare e scrivere sui gruppi di WhatsApp di scuola che produceva in me un certo bisogno di distanziarmi da quell’eccesso di ansia. “Questo sarebbe il momento per far riflettere di più gli alunni, sarebbe un’occasione da cogliere per farli leggere, approfondire, con più tempo, con un ritmo meno esagitato del solito”, andavo ripetendo sin dall’inizio. Ma tant’è.

Dopo una prima fase caotica, si è trovata un’organizzazione abbastanza accettabile per proseguire la scuola a distanza con i mezzi di comunicazione digitale a nostra disposizione. Ma i limiti e le difficoltà di questo modo di fare scuola, li possiamo cominciare a capire solo praticandola. Scopro, ma non è poi una sorpresa, che diversi alunni non dispongono a casa di un PC o di un tablet, e che le piattaforme per la didattica sono difettose su smartphone. Insegno da alcuni anni in un liceo di Guidonia, area metropolitana di Roma. Ma da quello che leggo e dalle voci di molti colleghi che insegnano altrove, le difficoltà per molti alunni e famiglie sono simili in tutta Italia, specialmente nelle aree più disagiate. Ci sono poi i problemi legati agli alunni con particolari difficoltà di apprendimento, gli alunni con BES (bisogni educativi speciali) e che hanno DSA (disturbi specifici dell’apprendimento, con tanto di certificazioni mediche).
Ma ci sono anche alunni semplicemente meno motivati, quelli che di solito tendono a rimanere ai margini dell’attività didattica, che nonostante i nostri sforzi, spesso non riusciamo a coinvolgere. Con la didattica a distanza le difficoltà di questi alunni si stanno ingrandendo e loro rischiano di rimanere ancora più ai margini. Nel fare le lezioni su Skype alcuni ragazzi non si mostrano, disattivano la videocamera. Io li invito a farsi vedere, così, almeno per essere in qualche modo in contatto. Che poi sarebbe questo l’obiettivo principale di questa modalità di fare scuola: mantenere un contatto, una relazione con i propri studenti, in tempi di necessario distanziamento. Ma anche l’assenza o la presenza a lezione diventa, in queste condizioni, questione nebulosa: non posso obbligare e tantomeno sanzionare uno studente se continua a non farsi vedere. In realtà, noi insegnanti non possiamo nemmeno fare un appello vero e proprio, perché dal 5 marzo (per alcune regioni dell’Italia del nord già dal 24 febbraio scorso) con la chiusura delle scuole non si conteggiano più presenze e assenze degli alunni e non si sommano più giorni validi da accumulare nel numero complessivo dell’anno scolastico. D’altra parte, nemmeno gli insegnanti hanno un obbligo normativo in base al quale svolgere queste lezioni a distanza.
Devo dire che nella scuola in cui lavoro e nella maggior parte delle scuole medie e superiori, gli istituti si stanno attivando e la maggior parte dei docenti si sta prodigando in quest’opera meritoria di prosecuzione con altri mezzi della didattica con le proprie classi. Ma qui veniamo al punto: i docenti non sono obbligati a farlo, come anche gli alunni. Non vi è una normativa su questo e non vi sono criteri in base ai quali impostare la didattica: orari, presenze, monte minimo di lezioni per materia, attività per discipline scritte e orali, per non parlare dei problemi legati alla valutazione. Sulla valutazione la Ministra Azzolina ha presto invitato i docenti “a non essere assillati dalla preoccupazione del voto”. Ma anche su questo, si procede per inviti e suggerimenti, nulla di obbligante, chiaro e trasparente a livello normativo. D’altra parte, uno degli ostacoli che rende difficoltosa l’approvazione di norme speciali per questi tempi di emergenza, sta nel contratto dei dipendenti statali, in questo caso dei docenti: non vi sono obblighi previsti dal contratto in tempi di interruzione delle normali attività didattiche e se, quindi, si volessero normare i criteri della didattica a distanza, andrebbero ridiscussi aspetti fondamentali del contratto e, si ammonisce da parte di molti, anche giustamente, non si rispetterebbe il principio sacrosanto della libertà di insegnamento e del diritto all’istruzione pubblica, sancito dall’articolo 33 della nostra Costituzione.

In ogni caso, al momento i tempi per ridiscutere il contratto non ci sono. Le conseguenze sul piano pratico di questo “momentaneo vuoto normativo” sono piuttosto evidenti: l’aumento delle disuguaglianze tra coloro che possono avere accesso a questo tipo di istruzione e coloro che non possono, e una disparità di impegno tra docenti che stanno lavorando per garantirlo e altri, non pochi, che si stanno limitando ad assegnare compiti e materiali senza far uso di alcun tipo di attività interattiva e di spiegazione dei contenuti. Se è vero, infatti, come emerge da un recente sondaggio che su 8,3 milioni di studenti, almeno 6,7 milioni di questi sono stati raggiunti dai mezzi alternativi della didattica a distanza, lo stesso sondaggio non considera che quella fetta di studenti coinvolti sta eseguendo lezioni solo per poche ore a settimana e per alcune discipline, a seconda della disponibilità e della buona volontà dei propri insegnanti, ma alla fine di questo anno scolastico così eccezionale, in alcune discipline saranno state create delle notevoli carenze . [1]

Se si considera poi la differenza tra la fascia degli studenti delle superiori e quella dei bambini delle elementari, l’eccezionalità di questo anno scolastico appare ancora più evidente. Dal monitoraggio condotto dal Ministero, risulta che è proprio nella scuola primaria che vi è il tasso più basso “di frequenza” online, proprio in una fase così basilare del processo di apprendimento dei ragazzi. Si può oggi in tutta fretta mettere le maestre e i maestri nelle condizioni di insegnare a leggere, a scrivere e a fare di conto, come si diceva una volta, per mezzo di pc e tablet? Moltissimi insegnanti non sono pronti a far questo e il risultato è che molti bambini di quella fascia d’età vedono assegnarsi solo compiti da svolgere senza quasi nessun intervento attivo dei propri docenti. Il risultato è spesso che le famiglie sono chiamate a supplire il ruolo dei docenti distanti e che stiamo assistendo al più grande esperimento di homeschooling mai realizzato. Esperimento, però, non concordato, attuato di necessità, e spesso contro la possibilità e la volontà dei genitori.

“Fare almeno una parte di programma sarà sempre meglio che non fare nulla”, si sente dire da più parti, sia tra i piani alti del MIUR sia tra molti colleghi insegnanti, famiglie e cittadini in genere. “L’anno scolastico deve andare avanti e deve essere ritenuto valido”, risuona come un mantra che non può essere contraddetto; e il recente intervento in Parlamento della ministra Azzolina dava quasi per scontato che questa dovesse essere la linea da seguire ad ogni costo.

E se invece l’eccezionalità della pandemia, oltre a farci rimettere in discussione molti aspetti del nostro tenore di vita e delle nostre abitudini, diventasse occasione per ripensare radicalmente il nostro sistema scolastico e gli stili e gli obiettivi della nostra istruzione pubblica? Di recente, ho provato a sostenere in un paio di interventi sui social l’idea di annullare l’attuale anno scolastico per farlo ripetere a tutti a settembre. Apriti cielo! La reazione della maggior parte dei miei conoscenti e amici, molti insegnanti, ma non solo, è stata tra lo stizzito e il sarcastico, campione abbastanza rappresentativo della gran parte degli umori dell’opinione pubblica a riguardo. L’obiezione principale che viene mossa è che questa scelta sarebbe vissuta da studenti e famiglie come un’ingiusta punizione. “Ti immagini i ragazzi che devono fare gli Esami di Stato tra tre mesi, come la prenderebbero?” tuonano molti miei colleghi; “E a mio figlio che racconto? che dopo gli sforzi fatti fino a marzo, deve ripetere la seconda elementare?”, mi risponde stizzita una mamma, terrorizzata alla sola idea di far ripetere al suo bambino un anno intero di scuola.
L’idea di annullare un anno, a scanso di equivoci, non deve far pensare ad una bocciatura, questa sì sarebbe una punizione. Ma annullare l’anno scolastico, a mio parere, dovrebbe essere la logica conseguenza di una rigorosa presa d’atto: quest’anno non abbiamo raggiunto gli standard di apprendimento (non il semplice programma delle materie!) e non lo abbiamo potuto fare per un evento davvero eccezionale, paragonato, in effetti, anche se con qualche esagerazione, ad una guerra. Fermiamoci, per questi mesi, tutti quanti. I ragazzi a riflettere, a leggere, a cercare di capire il momento che viviamo, pur accompagnati da qualche attività e dal mantenimento delle relazioni con il docente e con il gruppo classe. Ma noi insegnanti e tutto il mondo della scuola cogliamo l’occasione, a partire da ora, per ripensare e rimettere in discussione un modello educativo e d’istruzione, insieme ai valori culturali che ad esso sono legati. Perché la questione non è tanto che cosa dobbiamo dire a quel bambino che deve ripetere la seconda elementare ma il fatto che come lui moltissimi altri non saranno stati messi quest’anno nelle condizioni di fare i necessari passi nell’apprendimento, e imparare a leggere, a fare le operazioni, a capire un testo, allo stato attuale delle cose, non lo si può e non lo si dovrebbe fare a distanza o in un’improvvisata homeschooling.

L’emergenza richiede risposte radicali e di profonda rottura in tutti i settori. Nell’economia come nell’organizzazione sanitaria, nella ricerca scientifica come nella prevenzione dei disastri ambientali, nello stile di vita e nei consumi saremo chiamati necessariamente a rivedere ciò che abbiamo fatto fin qui. La scuola e il sistema dell’istruzione non fanno eccezione e potrebbero trovare in questa fase storica un punto di svolta fondamentale. Per molti questo cambiamento consiste già nel riuscire a far prendere in mano ai docenti un computer per fare la lezione al posto della lavagna e del gesso. Certamente il ricorso al digitale nella scuola sta già ottenendo, sotto la spinta della necessità, una brusca accelerazione. E su questo fronte non si tornerà di certo indietro. Ma non credo che possa bastare. Occorre ripensare il sistema d’istruzione verificando in modo oggettivo le competenze e gli standard di apprendimento per fasce d’età e gradi di scuola. A partire dall’antica diatriba tra cultori della selezione a scapito dell’inclusione sociale e culturale, da un lato, e sostenitori dell’inclusione a tutti i costi, a discapito di un elevato livello dell’apprendimento e della preparazione culturale in vista di un mondo assai complesso, dall’altro. Credo che tra queste due opposte visioni, vi sia spazio per una terza via.

Partire dall’annullamento di un anno scolastico (cosa che potrebbe mettere in un certo imbarazzo il nostro Paese perché non rispetterebbe la Convenzione UNESCO contro la discriminazione nel campo dell’insegnamento e dell’istruzione[2], oltre a risultare assai impopolare) può forse essere una proposta provocatoria, ma vuole essere lo strumento per ripensare complessivamente il mondo della trasmissione e dell’elaborazione della conoscenza nelle nostre scuole. Un aspetto da cui partire potrebbe essere l’organizzazione dei gruppi classe e il sistema di passaggio da un anno a quello successivo.
Perché non ipotizzare che un ragazzo brillante in alcune discipline ma carente in altre non possa “ripetere l’anno” solo in quelle in cui ha difficoltà ed andare avanti con il programma nelle materie in cui va bene? Perché non pensare ad un sistema in cui si formino diversi gruppi classe per materia a cui affluiscano gli studenti che hanno più bisogno di ore di lezione in certe materie invece che in altre? Perché non pensare ad un sistema scolastico che preveda tempi di apprendimento differenziati per gli studenti, per cui, sia in base alle indicazioni dei docenti, sia in base alle attitudini e competenze degli alunni, questi possano seguire un quantitativo diversificato di ore per disciplina a seconda delle esigenze personali? Perché, soprattutto, e qui verremmo a colpire un inossidabile limite culturale, pensare che ripetere un anno sia una bocciatura dello studente e non una concessione di un tempo maggiore per approfondire e crescere? Perché (quanto è forte il retaggio di un certo darwinismo sociale!) continuare a vedere l’alunno che ripete un anno come un reietto, con la conseguenza molto frequente che quell’alunno sarà poi uno dei tanti che vanno ad aumentare le già alte percentuali della nostra dispersione scolastica?
Concepire il tempo dell’apprendimento come un tempo concesso ad una maturazione che necessita di ritmi diversi quasi quanti sono i percorsi personali dei nostri alunni, sarebbe il modo per superare tale inveterato retaggio culturale, senza per questo mancare di rigore e di serietà nei percorsi di apprendimento. Nell’attuale sistema scolastico, ci si trova a volte (ed è capitato di recente anche nella mia scuola) nella situazione paradossale di dover bocciare un ragazzo di terzo o quarto liceo per non aver superato l’esame di recupero a luglio dopo aver preso un debito in una sola materia (quelli che un tempo erano chiamati “esami di riparazione”). Con un sistema che ripensi i tempi di apprendimento, quel ragazzo potrebbe passare anche all’anno successivo per la maggior parte delle discipline (avendo già raggiunto in queste obiettivi di apprendimento più che sufficienti o addirittura buoni) e frequentare un gruppo classe che ripeta il programma dell’anno già superato solo in quella materia.

Qualcuno a questo punto potrebbe dire: “E che cosa c’entra tutto questo con l’opportunità di annullare un anno scolastico per un intero Paese?” La questione ha a che fare proprio con il fatto che siamo di fronte ad una situazione inedita, dolorosa e difficile, ma della quale va colta la fecondità sul piano culturale. E sul significato di cultura nella sua connessione con la scuola occorre ora soffermarsi. Se cultura deriva dal latino colere, coltivare, il luogo per eccellenza dell’attività del contadino, il campo, non può che essere la scuola. Ma anche i campi, a lungo andare, come ci insegna anche la più antica tradizione biblica, hanno bisogno di un periodo di riposo, per poter ritrovare la fecondità perduta. E allora bisogna fermarsi o quantomeno cambiare ritmo e acquisire il tempo più adatto alla scuola. Sin dai tempi di Platone e Aristotele, i greci concepirono la scuola (scholè) come il luogo del tempo libero, il luogo della creatività di chi spontaneamente coltiva il campo della propria persona, delle proprie scelte, delle possibili critiche alla vita, a se stessi e al mondo. Ma questo tipo di coltivazione, d’altra parte come ogni cura agricola, ha ritmi che alternano fasi di maggiore a fasi di minore intensità, così come le stagioni impongono. Negli ultimi tempi, quelli della nostra contemporaneità, abbiamo invece spostato la scuola nei luoghi del lavoro, le abbiamo reciso quasi ogni legame con il tempo libero e la spontaneità, l’abbiamo resa una propaggine della produzione e dell’efficienza a tutti i costi. E anche i ritmi di una scuola del genere sono stati accelerati e non è ammessa alcuna sosta in questa continua catena di montaggio.


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Nell’attuale situazione, nella cosiddetta didattica a distanza, capita di assistere ormai quotidianamente a lezioni di 40 minuti (alcune piattaforme non permettono di dilazionare i tempi) scaduti i quali la comunicazione si interrompe inesorabile, magari proprio quando l’insegnante stava riuscendo a ottenere un minimo di attenzione o quando un ragazzo (è capitato a mio figlio di seconda media stamattina) stava riuscendo ad aprirsi e a raccontare qualcosa di sé, uscendo per un momento dall’isolamento della quarantena. Con queste videolezioni assistiamo ad un’accelerazione e ad una compressione dei tempi, più di quanto non avvenga già negli edifici scolastici. E non è solo il tempo ad assumere una dimensione distorta. Ne è coinvolto anche lo spazio e la fondamentale dimensione di separazione tra pubblico e privato. La scuola è luogo pubblico, istituzionale, uno spazio nel quale ci si reca uscendo dalla privatezza della propria casa e delle proprie cose. È l’agorà nella quale ci si incontra per coltivare il proprio sapere ma anche lo spazio in cui la dimensione della polis entra nella formazione del ragazzo che sarà cittadino. Al contrario, in questi giorni è venuta del tutto meno la distinzione tra pubblico e privato: facendo lezione l’insegnante vede i luoghi privati, le case, le stanze dei propri alunni e viceversa, pur incontrandosi virtualmente in una dimensione che dovrebbe essere soltanto pubblica, ma che ne è ormai esclusivamente il surrogato.

Dunque, che fare? Non si tratta di esprimere un vago senso di nostalgia per una scuola che non c’è più, ma si tratta di prendere atto di alcune serie distorsioni e carenze cui stiamo andando incontro e di trarne la conclusione più onesta. Questo strano anno scolastico finirà probabilmente con un sei politico generalizzato. Infatti, la valutazione da lontano è un bluff e in caso di insufficienze i nostri avvocati saranno subissati di lavoro con i ricorsi che arriveranno. E se il sei politico scontenta i fautori del “rigore” e della selezione darwiniana in ambito scolastico, altrettanto scontenti devono essere coloro che invece hanno più a cuore l’idea di una scuola dell’inclusione, che con le videolezioni sta facendo fuori proprio gli incapienti e gli alunni più in difficoltà. Dunque, sarebbe il caso di fermarci e pensare davvero a che scuola vogliamo, ma dalle fondamenta. E se proprio non si vuole annullare l’anno scolastico, vada pure, ma, per favore, non chiamatela “scuola a distanza”: la scholè presuppone la prossimità.

NOTE

[1] Da Il Fatto quotidiano del 28.03.2020, “Coronavirus, monitoraggio del Ministero dell’Istruzione sulla didattica a distanza: all’appello mancano almeno 46.000 tablet”. Alex Corlazzoli.

[2] La Convenzione UNESCO contro la discriminazione nel campo dell’insegnamento fu approvata a Parigi il 14 dicembre 1960 e entrata in vigore il 22 maggio 1962. Vi aderiscono attualmente 104 paesi, tra cui tutti i membri dell’Unione Europea.





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