Ad occhi chiusi spalancati nel deserto del reale
Tommaso De Lorenzis
Se fosse un film, Palpebre sarebbe una buona risposta a Tesis, la pellicola che – a metà degli anni Novanta – trasformò Alejandro Amenábar in un regista di culto per gli amanti del thriller e per almeno una generazione di film maker in erba. Davanti al primo romanzo di Gianni Canova è impossibile sottrarsi al gioco delle associazioni tra letteratura e grande schermo. Quando uno tra i più noti critici cinematografici italiani, instancabile studioso della visual culture, fondatore del mensile «Duel», autore di monografie dedicate a Robert Zemeckis e David Cronenberg, decide di volgere lo sguardo sulla pagina bianca, laddove vanno allineandosi le parole della narrazione, è d’immagini, visione, cinema, mass media che continua a occuparsi: seppure con altri mezzi e da una prospettiva differente.
Nella cornice di un plot condito a botte di efferati omicidi, indagini non autorizzate, frenetiche cacce all’uomo e fughe rocambolesche, Canova riprende lo spunto narrativo della violenza nel mercato degli audio-video e del traffico di truculenti filmati. Basta quest’accenno per pensare a quella produzione di snuff movie, organizzata nei sotterranei della Facoltà di Cinema di Madrid, che costituisce il mistero di Tesis. Di accademia, peraltro, si parla anche nel romanzo, perché il protagonista Giovanni Vigo – il cui nome suona come un omaggio a quel grande irregolare della cinematografia francese che fu Jean Vigo – è un contrattista universitario impegnato nello studio dei contrappassi nel Purgatorio dantesco. Ma ciò che richiama davvero il lungometraggio del cineasta spagnolo è la tragica consapevolezza che ispira il racconto della pervertita iconomania in voga nella società contemporanea.
In altre parole: arginare la circolazione d’immagini raccapriccianti o frenare la visione compulsiva della più invereconda mostruosità significa ingaggiare una battaglia persa in partenza. Lo stesso Amenábar, evocando un pretestuoso intento pedagogico, chiudeva Tesis con un paradosso: ovvero con la messa in onda nei telegiornali dello snuff al centro della vicenda. Come dire: «Vuoi provare a fermare l’orrore? Lascia stare. È inutile. Otterrai solo di aumentarne la diffusione, perché non c’è modo d’interrompere la compiaciuta visione degli incubi». Il motivo è cruciale, allude alla quintessenza della comunicazione di massa, pone il problema della rappresentazione della sofferenza ed è stato sovente ripreso dal cinema di genere. Perfino in un horror come The Ring l’unico modo per sfuggire alla vendetta di Samara Morgan è quello di duplicare la videocassetta in cui è incarnato lo spirito della ragazzina dalla scarmigliata criniera, contribuendo così alla propagazione pandemica del male e dei suoi segni. E anche questi sono i poteri dell’immagine maligna al tempo della sua riproducibilità tecnica.
La scelta d’un titolo secchissimo esplicita i contenuti di questo romanzo che celebra i molteplici significati del guardare e del vedere. Al contempo, è facile cogliere il riferimento a un’“illustre” tradizione di torture che va dalla medioevale accigliatura – la cucitura delle palpebre patita dagli invidiosi nella seconda cantica della Commedia – al suo opposto speculare: la famigerata “cura Ludovico” dell’Arancia meccanica. Che sia per forzata chiusura o, all’inverso, per costrizione allo spalancamento, l’alterazione del moto (in)volontario della coppia di lembi carnosi simboleggia la «colpevolezza del guardare», la conseguente espiazione della pena e il controllo degli altrui pensieri. Si potrebbe dire che chi domina le palpebre domina le menti.
E dunque se di occhi stiamo parlando, “galeotto” è lo sguardo – non ricambiato – che, in un pomeriggio di primavera del 2004, Giovanni Vigo posa su un’enigmatica donna. Accade tutto per caso, nei pressi dell’Università Statale. Siamo sotto il cielo plumbeo d’una Milano sferzata dalla pioggia, durante i giorni della decapitazione di Nick Berg in Iraq e dell’uscita in sala di Kill Bill. L’incontro con la seducente Anna Maria, detta Mia, spinge il protagonista al centro di un’indagine dalle imprevedibili conseguenze. Una holding dell’orrore, tanto sfuggente quanto intoccabile, commissiona cruente esecuzioni per foraggiare un redditizio commercio di dvd illegali al cui confronto gli snuff di Tesis sembrano innocenti filmini di compleanno e Jack the Ripper fa la parte del piccolo chirurgo. Gli omicidi, infatti, sono particolarmente brutali e sulle vittime vengono praticate selvagge mutilazioni tra le quali non poteva mancare l’asportazione dei bulbi oculari.
La scia di sangue porta alla fatale Mia, versione più sentimentale e meno marziale della Beatrix Kiddo/Uma Thurman tarantiniana, e così Giovanni avvia un’indagine informale, coinvolgendo l’amico Giorgio Simmel (qui il riferimento è al sociologo Georg Simmel), acuto cronista di nera e nota voce di Radio Popolare. Ma come in ogni buon thriller i ruoli non tarderanno a ribaltarsi e i cacciatori si trasformeranno in prede, mentre l’incubo assume le sconvolgenti dimensioni d’un girone infernale e la ragione finisce per cedere alla follia. D’altronde Palpebre è un compendio in forma romanzesca delle profonde pulsioni della psiche e un aggiornamento letterario della grande iconografia dedicata ai castighi ultramondani: dall’Alighieri a Giotto. Il tutto, però, viene interpretato sotto il segno d’una significativa variazione sul tema. L’autore, infatti, ci ricorda come non esista alcun inferno, perché l’inferno è solo un altro modo di chiamare il reale.
Utilizzando i canoni del genere di suspense, Canova ha scritto un romanzo totale sul nostro tempo, indagando le molteplici ossessioni che si agitano sotto la consapevolezza dell’Io e che abitano i sogni più inconfessabili. I grandi temi della cronaca dei primi anni Zero, dalle decapitazioni degli ostaggi in Iraq allo «scontro di civiltà», passando per l’isteria securitaria, il razzismo diffuso, la maniacale attenzione per la corporeità, la costruzione mediatica del Mostro e la morbosa curiosità delle trasmissioni televisive in onda dopo il tg di mezza sera, completano la fedele rappresentazione d’una realtà irredimibile. E al centro di tutto c’è l’occhio. O meglio: gli occhi. Mai più di due. Forse tre, quando il riferimento è al terzo bulbo, quello dell’anima, quello che – secondo la dottrina dei chakra – garantirebbe l’accesso a un livello di coscienza superiore. Altrimenti sono proprio loro i principali strumenti di soddisfacimento – e dunque i motori immobili – delle brame più turpi: «Via da questo sguardo così voglioso solo del sangue e del dolore degli altri, fuori, via via, circolare circolare, non c’è nulla da vedere, nulla».
Con un’azzeccata anticipazione, Canova condensa i motivi del suo narrare in un doppio esergo che combina il passo evangelico della decapitazione di Giovanni Battista ai primi versi de La canzone del padre di Fabrizio De André. L’accostamento, bizzarro solo in apparenza, funge da viatico alla scoperta della folle crudeltà e dell&rsquo
;inevitabile decadenza che allignano nei rovesci di quella “normalità” borghese sbeffeggiata dal cantautore ligure.
«Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi / Solo i sogni che non fanno svegliare?», cita Canova. «Lei ha gli occhi di una donna che è Mia», continua a cantare De André. E proprio il segreto degli occhi di Mia schiuderà gli abissi di un’ultima, estrema perversione: non disumana, bensì troppo umana, nel momento in cui la differenza tra vizio e virtù, dolore e piacere, assoluzione e delitto, è oramai indistinguibile…
(7 settembre 2010)
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