Addio a Luisito Bianchi, prete operaio e profeta della gratuità

Valerio Gigante

, da adistaonline.it

Prete-operaio, prete-poeta, prete della Resistenza, prete-scrittore, prete-monaco. Luisito Bianchi è stato tutto questo e altro ancora. Ma soprattutto è rimasto sempre testardamente prete, cioè un uomo di Chiesa che ha cercato di portare in tutti i contesti in cui ha vissuto e lavorato la testimonianza di una Chiesa diversa dal modello gerarchia-potere-ricchezza, segnalando al contrario la drammatica urgenza di rimettere al centro di tutta l’attività ecclesiale il valore della gratuità. Una contraddizione, quella tra la limpida testimonianza individuale e i limiti e i compromessi dell’istituzione a cui apparteneva, che ha accompagnato tutta la vita di don Luisito, segnandone profondamente l’azione pastorale e l’esperienza di fede e che è stata al centro della riflessione di molti suoi libri.

Malato da tempo, don Luisito è morto all’età di 84 anni, il 5 gennaio scorso, a Viboldone, frazione di San Giuliano Milanese, nel monastero benedettino guidato da madre Ignazia Angelini, in cui viveva da molti anni e di cui era cappellano.

Era nato il 23 maggio 1927 a Vescovato, in provincia di Cremona. Ordinato nel 1950, era stato insegnante al seminario vescovile di Cremona (1950-1951) e missionario in Belgio (1951-1955). Tornato in diocesi, fu nominato vicario a S. Bassano in Pizzighettone (1956-1958), con l’impegno di interessarsi dei giovani della fabbrica Pirelli. Dopo due anni, il vescovo lo volle assistente provinciale delle Acli. In quel periodo fu molto vicino al mondo del lavoro, soprattutto al settore dell’agricoltura. Poi le Acli lo chiamarono a Roma, per diventare vice assistente nazionale. Ma dopo tre anni fu lo stesso Bianchi a chiedere di potersene andare, perché nutriva riserve sull’impostazione della funzione dell’assistente. «Si voleva fosse la coscienza cristiana del movimento, mentre io pensavo che ogni cristiano dovesse avere una sua autonomia, non dettata, nelle scelte politiche e sociali, da una direttiva esterna. Fu così che tornai indietro e chiesi di poter andare a lavorare in fabbrica. Il vescovo, forse per il rimorso di avermi mandato a Roma, acconsentì». Con alcuni aclisti avviò l’esperienza di “Ora Sesta”, l’ora dell’incontro e del dialogo, secondo il Vangelo di Giovanni (cap. 4). Il gruppo cercava (e cerca) di incarnare le attese e le speranze del Concilio soprattutto nei confronti del mondo operaio e contadino, attraverso l’approfondimento culturale dei grandi temi della pace, del lavoro, dell’ecumenismo, della solidarietà internazionale, della libertà, della partecipazione democratica, della fratellanza universale. “Ora sesta” ha pubblicato anche dischi (di alcune canzoni, don Luisito è autore, seppure sotto pseudonimo, sia dei testi che della musica) e libri. Tra questi, anche un lavoro dello stesso Bianchi, Salariati (1968), uno studio sociologico sul salariato di cascina nel cremonese.

L’esperienza della fabbrica

Don Luisito, che si era nel frattempo laureato anche in Scienze Politiche (titolo: “I contadini della Val Padana”, relatore: Francesco Alberoni), fu ancora insegnante nel Seminario di Cremona (1964-1967). Poi, nel 1968, decise di occuparsi dei problemi del lavoro dall’interno, scegliendo la condizione operaia. Erano gli anni in cui, soprattutto in Francia, cominciava a prendere piede il fenomeno dei preti-operai. Bianchi scelse la fabbrica soprattutto per coerenza al suo ministero: «Come posso restare coerente nell’annunciare la gratuità del Vangelo, se in cambio, proprio per la mia funzione di prete, ricevo del denaro o una paga mensile?». Don Luisito maturava infatti la convinzione che essere prete significasse soprattutto vivere il dono della gratuità, rifiutando qualsiasi compenso in denaro che riducesse il suo ministero a quello di “funzionario del sacro”. Per vivere decise quindi di lavorare. E di non percepire più la “congrua”. Così, il 5 febbraio del 1968, don Luisito Bianchi, con il permesso del vescovo (che lo inviò però fuori diocesi, ad Alessandria), fece il suo ingresso in una fabbrica chimica, la Montecatini di Spinetta Marengo, come operaio turnista addetto alla lavorazione dell’ossido di titanio. Per tre anni registrò le sue giornate, i suoi dialoghi con i compagni di turno, le sue vicissitudini lavorative e spirituali in alcuni taccuini, che composero una sorta di “diario di fabbrica”. Pubblicato nel 1972 da Morcelliana con il titolo Come un atomo sulla bilancia, quel testo fu ristampato da Sironi, nel 2005: si intitola I miei amici: diari (1968-1970), e si riallaccia, ma in un’ottica cristiana, a quella narrativa di fabbrica che, a partire dagli anni ’60, aveva indagato (attraverso i romanzi di scrittori come Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Lucio Mastronardi, Nanni Balestrini e Luciano Bianciardi) nevrosi e alienazione sociale prodotti dalla riorganizzazione neocapitalistica del lavoro (v. Adista n. 41/08).

Nei suoi appunti, Bianchi si sofferma però soprattutto sui rapporti tra la Chiesa e il potere, le relazioni tra teologia e politica; ma affrontando anche motivi di scottante attualità, come le relazioni sindacali in fabbrica, il rapporto tra cattolici e marxisti, l’ipocrisia delle dirigenze sindacali, la sicurezza sul lavoro, le morti bianche. «Ho capito – scrive nei suoi diari – che i quadri dirigenti non richiedono di apprendere qualche cosa ma solo di chiudere gli occhi, eseguire gesti una volta, due volte, cento volte, finché sei ammaestrato per bene, come succede con gli animali del circo».

Prete nella gratuità

Quando l’esperienza di fabbrica finì, alla fine del 1970, don Luisito fece un amaro bilancio di quell’esperienza, ricchissima invece dal punto di vista umano e relazionale: «I tre anni di fabbrica m’hanno persuaso che oggi, nella situazione attuale, l’evangelizzazione non è possibile». Ma quello che più tormentava don Luisito era di essere accettato come compagno di lavoro, amico e confidente, ma non come prete. «Perché a loro il Dio che presenta la mia Chiesa non interessa?», è la tormentosa domanda che don Luisito si ripeteva. «Perché la Chiesa lo predica e ne trae profitto e potere come da una merce», fu l’amara risposta giunta al termine dell’esperienza di fabbrica. Uscito dalla Montecatini, nel 1971 Luisito, con il consenso del vescovo, fece una brevissima esperienza da benzinaio a Milano. Poi cominciò a lavorare come traduttore, inserviente in ospedale e in seguito infermiere. Prete-operaio più che operaio-prete, perché l’idea della evangelizzazione e della presenza della Chiesa nel modo del lavoro rimanevano per lui prioritari rispetto alla dimensione “militante”. L’obiettivo, sempre il medesimo: trovare il sostentamento dal proprio lavoro per essere veramente gratuiti – e credibili – nel ministero. Un atteggiamento di radicalità evangelica che lo ha sempre nettamente contrapposto al sistema della “congrua” prima, all’8 per mille negli anni successivi alla revisione concordataria.

L’archetipo della Resistenza

Nel 1975, intanto, don Luisito pubblicava Dialogo sulla gratuità (edito da Morcelliana, riedizione Gribaudi, Milano 2004). Lo stesso anno, cominciò anche a maturare l’idea di un grande romanzo sulla Resistenza, periodo che Luisito aveva intensamente vissuto, anche se non come protagonista. La mattina scriveva, il pomeriggio studiava e traduceva per vivere. Cinque anni dopo
, il romanzo era pronto. Restò un dattiloscritto che venne letto da alcuni amici, che ne intuirono il valore e lo diffusero. Ebbe una sua prima edizione, autofinanziata, solo nel 1989, con il titolo Resistenza. Nel 1991 venne addirittura fatta una ristampa, anch’essa esaurita. Nel 2003 l’editore Sironi propose il romanzo con un nuovo titolo, La messa dell’uomo disarmato, al grande pubblico, facendolo divenire un caso letterario. Il testo venne infatti considerato dalla critica come il maggiore romanzo cristiano sulla lotta partigiana. Si tratta di un romanzo che affronta il tema sia nella sua accezione storica sia in un significato più profondo, civile, filosofico e religioso.

Dopo quel romanzo, Bianchi ha pubblicato Dittico vescovatino (2001); Simon Mago (2002), un testo che riabilita il personaggio da cui deriva il peccato della simonia, che l’autore attribuisce invece ai tanti Simon Pietro succedutisi alla guida della Chiesa; Monologo partigiano sulla Gratuità (2004), una serie di appunti e riflessioni per una storia della gratuità del ministero nella Chiesa; Quando si pensa con i piedi e un cane ti taglia la strada (2010), romanzo in cui viene fortemente criticato il sistema che relega i preti ad una mera funzione impiegatizia (v. Adista n. 50/10). Bianchi era anche poeta e ha pubblicato diverse raccolte di poesie tra cui Vicus Boldonis terra di marcite (1986) In terra partigiana (1992) Forse un’aia (1993) e Sulla decima sillaba l’accento (1995), Parola tu profumi stamattina (1999).

La tuta e la stola

Il funerale di don Luisito, celebrato il 7 gennaio prima all’abbazia di Viboldone e poi a Vescovato (Cremona), il suo paese, ha visto una straordinaria partecipazione di persone, amici ed estimatori. A presiedere il rito, il vescovo di Cremona, mons. Dante Lanfranconi. Sulla bara di don Luisito, come da lui espressamente chiesto, la sua tuta da operaio, la Bibbia, la stola e tre rametti di agrifoglio. Ad accompagnarlo al cimitero un asinello (animale di cui don Luisito parla nella sua “Messa”) e lo stendardo dell’Anpi.

(20 gennaio 2012)

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