Al capezzale dell’Europa

Pierfranco Pellizzetti


«L’Unione europea non è ancora un’unione; è una tregua
e non una pace. Quello che a Maastricht acquistò tale nome
manca del requisito essenziale di una unione politica: un patto
fondante in forza del quale lo stare insieme, il decidere insieme,
l’agire insieme siano assicurati non solo nell’accordo ma anche
nel disaccordo […] e questo si chiama modello federale»[1].
Tommaso Padoa Schioppa

«L’Unione Europea è quello che è; il risultato, in larga parte
involontario, di decenni di negoziazioni dei politici europei che
cercavano di difendere e promuovere i propri interessi […]. Un
compromesso su scala continentale, concepito letteralmente da
centinaia di commissioni»[2].

Tony Judt

Joseph E. Stiglitz (a cura di), Riscrivere l’economia europea – le regole per il futuro dell’Unione, il Saggiatore, Milano 2020
Manuel Castells (a cura di), Europe’s Crises, Polity Press, Cambridge 2018


Fondazioni in campo
Il 21 marzo 2019 veniva presentato a Bruxelles il rapporto Rewriting the Rules of European Economy e subito dopo pubblicato dall’editore Norton & Company Indipendent Publishers di New York. Un testo curato, per conto della FEPS (Foundation for European Progressive Studies), dall’economista americano Joseph Stiglitz – premio Nobel per il 2001 e già primo firmatario di un’analoga ricerca sugli Stati Uniti promossa dal Roosevelt Institute.

Solo qualche mese prima era apparso per i tipi di Policy il volume collettaneo sulle crisi europee, coordinato dal cattedratico dell’University of Southern California Manuel Castells e finanziato dalla Calouse Gulbenkian Foundation di Lisbona, in sodalizio con la parigina Fondation Maison des Sciences de l’Homme.

Un fervore analitico, con relativi investimenti (scientifici e monetari) a conferma di una crescente consapevolezza dello stallo in cui il venerando esperimento europeo langue da troppi anni. E rischia il definitivo fallimento.

Entrambe analisi marcate, per quanto riguarda la focalizzazione, dal profilo intellettuale dei due leader di progetto: se per l’americano è prevalente/pervasivo l’aspetto materiale degli interessi economici in gioco, il sociologo catalano privilegia un approccio interdisciplinare, in cui gli aspetti comunicativi tradotti in modelli di rappresentazione giocano un ruolo decisivo nella definizione delle scelte.

Se comune è la consapevolezza di una crisi con possibili esiti terminali, per Stiglitz la causa è sostanzialmente una questione di mancata crescita e ingiusti riparti della ricchezza, quando – secondo Castells – la vera origine del “male oscuro” risiede nell’aggrovigliarsi di concause multiple, non riconducibili a un solo epicentro.

Sostiene l’economista venuto dall’Indiana, in avvio del suo percorso di ricerca: «la dura verità è che la performance dell’Europa dal 2000 in poi lascia molto a desiderare, […] I tassi di crescita dell’Eurozona hanno smesso di aumentare alla nascita dell’euro: prima dello scoppio della crisi finanziaria la crescita era già inferiore rispetto ai decenni precedenti. […] E i risultati – particolarmente deludenti – dell’Eurozona dipendono in parte proprio dalla sua struttura. […] L’euro ha eliminato i principali meccanismi correttivi, amplificando così le conseguenze di eventi come la crisi finanziaria del 2008 e provocando la successiva catastrofe del debito sovrano. Se la crescita complessiva dell’Unione è stata deludente, l’economia europea ha evidenziato anche un altro problema, ancora più preoccupante: i benefici di quel poco di crescita che c’è stata sono andati in gran parte a chi stava meglio» (J.S. pag. 28). In un approccio monotematicamente economicista, prevedibile per un ex Vice Presidente della Banca Mondiale, che vent’anni fa indicava «la causa e la natura della povertà nella scarsa capacità di produrre reddito»[3].

Ribadisce il proprio assunto plurale il sociologo catalano, antico militante anti-franchista; a mo’ di epigrafe del lungo itinerario analitico che aveva preso le mosse partendo da una domanda provocatoria: «Fading of a Dream?» La fine di un sogno?

«Da un lato, queste crisi sono specifiche dell’Europa, e dall’altro sono parte integrante di crisi che operano ad altri livelli, sia nazionali che extraeuropei. Alcune crisi sono espressamente europee, o europee e americane – come nel caso, per esempio, delle crisi finanziarie. Altre crisi sono globali, o comunque non circoscritte a Europa e USA – questo è il caso, ad esempio, della crisi di legittimità dei sistemi politici e delle istituzioni tradizionali di democrazia rappresentativa, una crisi che osserviamo in molti paesi del mondo. Queste crisi sono sia oggettive, tanto che si potrebbero affrontare come qualcosa di reale e tangibile, e allo stesso tempo sono soggettive, una combinazione di rappresentazioni, credenze, sentimenti, emozioni e paure; qualcosa molto più difficile da definire quanto – in fin dei conti – fondamentale, poiché in ultima istanza proprio questa è la base su cui i cittadini esprimono o ritirano il loro sostegno» (M.C. pag. 432).


Economia, la sfida esogena

Secondo il report intestato a Stiglitz (un testo compatto, in cui non sono identificabili i contributi dei sette coautori indicati, in larga misura americani come il coordinatore; e a maggior ragione quelli della pletora dei testimonial internazionali coinvolti, tra cui da parte italiana troviamo i nomi di due politici: Massimo D’Alema e Paolo Guerrieri) tutto nasce da un abbaglio: la convinzione che dopo il 1989 e la disgregazione del blocco sovietico il modello economico di riferimento, la vera one best way, fosse l’America mercatista e neoliberista; a seguito della svolta conservatrice reaganiana e la sua “rivoluzione vudu” basata sul dogma pernicioso del trickle-down (sgocciolamento), secondo cui tutti hanno qualcosa da guadagnare anche se i benefici si concentrano nelle fasce di reddito più alte.
La restaurazione del privilegio, per cui «l’agenda della globalizzazione è stata trainata dagli interessi delle grandi aziende, con effetti negativi tutt’altro che casuali per i lavoratori» (J.S. pag. 312); l’imporsi di decisioni «dettate dalla convinzione che i mercati tendessero naturalmente all’efficienza economica a condizione che i governi frenassero la spesa pubblica, il disavanzo e l’inflazione» (J.S. pag. 31). I chiodi fissi dell’economicismo semplicistico mainstream d’oltre Atlantico: la Mano Invisibile e il Darwinismo sociale, il cui impatto viene sintetizzato da Stiglitz osservando che «gli economisti hanno etichettato quel particolare insieme di idee economiche sull’efficienza e la stabilità di mercati privi di vincoli fatto proprio, all’inizio degli anni novanta, dall’Unione europea come ‘economia neoclassica’, mentre altri hanno classificato quelle stesse idee sotto la voce ‘neoliberismo’ o ‘fondamentalismo di mercato’» (J.S. pag. 32). Di conseguenza, la riduzione di uno dei due contraenti del “patto welfariano” (keynesiano-fordista) sino ad allora costitutivo nel processo di costruzione europea – il lavoro – a puro accessorio inutile. Non è certo un caso se il patto stipulato e sottoscritto nel 1997 dai paesi membri dell’Unione europea, inerente al controllo delle rispettive politiche di bilancio pubbliche, secondo i requisiti di adesione all’Eurozona previsti dal percorso d’integrazione monetaria intrapreso nel 1992 con il trattato di Maastricht, reca in calce i principi di “stabilità” e “crescita” ma non della “occupazione”. In cui la stabilità auspicata è quella dei prezzi, nella falsa equazione che sia solo da tale condizione a dipendere la crescita economica.

Un inquinamento dei paradigmi-guida, tradotto in cattiva teoria partendo da premesse errate, che pure ha largamente ispirato le idee dei funzionari pubblici e politici preposti alla costruzione europea; sintetizzato dal paper FEPS in nove issues:

  1. La dottrina dell’austerità, quando i fatti attestano che nessuna economia si è ripresa con politiche recessive;
  2. La dottrina del debito, secondo cui lo Stato deve mantenere il proprio debito sotto la soglia del 60% del Pil, quota priva di fondamenti teorici ed empirici;
  3. La dottrina della stabilità dei prezzi, come impegno dei governi a spingere l’inflazione al di sotto del 2%. Quando la minaccia odierna è la deflazione;
  4. La dottrina dei ‘mercati infallibili’, pur essendo acclarato che in assenza di interventi dello Stato la concorrenza diminuisce progressivamente;
  5. La dottrina delle banche infallibili, tesi smentita dalle prassi ricorrenti degli istituti di togliere denaro alle aziende per distribuirsi lauti dividendi:
  6. La dottrina dello shareholder capitalism, in cui un azionariato miope bada solo ai rendimenti trimestrali con enormi costi sociali;
  7. La dottrina delle privatizzazioni, quando – ad esempio – il sistema sanitario europeo – largamente pubblico – è più efficiente di quello americano privato;
  8. La dottrina del “lasciar fare ai mercati”, quando questi si disinteressano dei costi sociali, come l’ambiente e gli investimenti in ricerca di base:
  9. La dottrina del libero scambio, come effetto della globalizzazione che crea una riduzione dei salari per i lavoratori meno qualificati nei paesi avanzati.

Ovvero la sicura via alla stagnazione, imprigionata nel circuito paralizzante del TINA (there is no alternative). La subalternità alla visione e ai dettami di un sistema-mondo a centralità statunitense, in cui l’Economico ha totalmente sottomesso il Politico e il Sociale (“it’s the economy, stupid” lo slogan elettorale 1992 di Bill Clinton) che trova la sua più preoccupante declinazione in quello che doveva diventare il passo decisivo per l’integrazione europea: l’autogol della moneta unica.

Scrive il team Stiglitz: «la fatidica decisione, presa nel 1992, di creare l’euro non era del tutto sbagliata. Sicuramente sbagliata è stata, però, l’assenza di istituzioni che ne garantissero il buon funzionamento» (J.S. pag. 83). Di fatto la nascita dell’Eurozona ha privato i paesi aderenti di due correttivi fondamentali, senza nulla che sopperisse a tale mancanza: il tasso di cambio e quello di interesse. Questo nonostante che già allora arrivassero avvertimenti sulle presumibili difficoltà del sistema monetario così introdotto in presenza di shock finanziari, Come puntualmente avveratosi nel 2008, con il collasso giunto dalle coste americane (crollo di Wall Street); che ha portato alla luce tutti i difetti della moneta unica, diffondendo una crescente avversione nei suoi confronti presso i popoli dei Paesi europei più gravemente colpiti da quella che appariva una vera e propria abdicazione di sovranità monetaria senza contropartite. E mentre emergevano terribili catastrofi umanitarie – come nel caso greco – a Bruxelles e Francoforte si continuava a ripetere che “l’obiettivo principale della politica monetaria è il mantenimento della stabilità dei prezzi”. Segno icastico della vittoria del Centro-Nord europeo – grazie al viatico nord-americano – nello scontro tra due filosofie e tradizioni alternative in materia di questioni monetarie. Quanto aveva puntualmente evidenziato un politico tedesco di lungo corso, l’ex vice-cancelliere Joschka Fischer: «la Germania si schierava per una moneta forte, incentrata soprattutto su una banca centrale vincolata alla stabilità […]; mentre in Francia la banca centrale e le politiche monetarie e dei tassi d’interesse venivano intese per ciò che di fatto sono, cioè come degli atti politici»[4].

Identità politica, la sfida endogena

Di converso il Rapporto Castells – come da titolazione, che segnala una molteplicità di crisi tra loro interrelate – è composto da una serie di saggi monografici; opera di un panel multidisciplinare che oltre alle competenze economiche mixa approcci antropologici, sociologici e politologici, unificati dall’esame da diversi angoli visuali di una ricorrente criticità pervasiva: l’abbassamento di qualità democratica che affligge lo stato dell’arte in Unione europea. La perdita di un ruolo identitario di appartenenza, riscontrabile a monte nell’involuzione della sua classe dirigente, sempre più auto-referenziale, come – a valle – nei processi diffusivi di ineguaglianza e crescenti disagi sociali, che hanno vulnerato ben oltre le soglie del tollerabile larghi strati della popolazione europea.

Su quest’ultimo aspetto si segnalano – tra gli altri – i contributi di John B. Tompson, antropologo del St. Jesus College di Cambridge («sta emergendo una nuova classe di poveri, ossia i giovani che abbandonano la scuola o si diplomano nell’istruzione superiore ed entrano nel mercato del lavoro senza trovare occupazione […] l’improvviso deterioramento delle condizioni di vita per milioni di persone ha avuto anche gravi conseguenze in termini di salute, sia fisica che mentale, […] recenti ricerche hanno dimostrato un sostanziale aumento degli orientamenti al suicidio tra il 2009 e il 2011»[5]), e di Michel Wieviorka, sociologo della devianza presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, («inizialmente, la costruzione dell’Europa era basata su convinzioni morali profondamente umanistiche. Lo scopo era quello di impedire qualsiasi ritorno alla guerra e alla barbarie. […] Dagli anni ’80, e sempre più dalle crisi degli ultimi anni, le forze del male stanno guadagnando terreno, minando la capacità dell’Europa di affermarsi a livello mondiale come il continente che è stato l’origine e il rappresentante dell’universalismo e dei diritti umani»[6]). Dunque, elementi che convergono nel determinare la rottura del patto sociale di cittadinanza europea.

La gravissima perdita della tensione ideale che aveva improntato la generazione dei Padri Fondatori nell’edificazione di una generosa costruzione sovranazionale, tracimata in qualcosa di profondamente diverso. Come ebbe a scrivere Castells oltre vent’anni fa, «la formazione dell’Unione Europea non è un processo di costruzione dello stato federale europeo del futuro, bensì la creazione di un cartello politico – il cartello di Bruxelles – in cui gli stati-nazione europei potessero, collettivamente, recuperare un qualche grado di sovranità nel nuovo disordine globale per poi distribuirne i benefici tra i propri membri sulla base di regole oggetto di negoziati senza fine»[7]. Un’analisi che tira in ballo la qualità culturale e umana del personale politico e tecnocratico che occupa gli organigrammi unionali.

A tale proposito il politologo Colin Crouch, emerito dell’Università di Warwick, puntava il dito sul declino della socialdemocrazia, uno dei principali collettori di consenso verso il patto su cui si reggeva l’equilibrio politico del processo unificativo continentale: «sta sperimentando un doppio problema nei principali Paesi europei. In primo luogo, la quota del voto popolare è spesso diminuita. In secondo luogo, le politiche neoliberiste sembrano rimanere egemoniche nonostante il crollo del 2008, con la privatizzazione dei servizi pubblici, il declino dello stato sociale e una tassazione sempre più regressiva, prevalente quasi ovunque»[8].

E pure il sottoscritto, nel suo contributo relativo al “caso italiano”, inteso come laboratorio di processi omologativi del ceto politico (nell’involuzione più nota quale “casta”), rifletteva sulla questione della rappresentanza denunciando «la copertura ideologica all’unificazione antropologica della classe politica in quanto difesa dei propri privilegi di status. Grazie alla quale ha raggiunto l’obiettivo di diventare autonoma dalla società»[9].


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Concludendo, Claus Offe, l’antico francofortese che ha lavorato nel nostro team, rivolgeva la sua critica proprio al pensiero dominante nell’area di lingua tedesca, reo di aver trasformato in ideologia la scelta finanziaria della moneta unica: «l’euro è anche ciò che nella tradizione marxista viene chiamato "ideologia": un insieme di percezioni errate delle realtà socio-economiche che si uniscono a false speranze e promesse suggerite dalle apparenze che queste realtà producono»[10].

Sicché, a fronte dell’economicismo stiglitziano, l’approccio castellsiano, che impronta il lavoro collettaneo, parte dalla premessa secondo cui «il dominio sociale reale origina dal fatto che i codici culturali impregnano la struttura sociale»[11]. Da qui il giudizio di sintesi: «l’ambizione del progetto europeo è stata smentita dalla debolezza delle istituzioni europee, in ultima analisi dipendente dalle élite dominanti» (M.C. pag. 8).

Cosa se ne salva? Al riguardo va ribadito che le due ricerche in esame propongono percorsi analitici con premesse e sviluppi diversi; ma che – alla fine – trovano un punto di convergenza: la presa d’atto – comunque – della sopravvivenza di un insieme di principi cardine del progetto di integrazione economica e politica dell’Europa – dalla solidarietà alla sussidiarietà – come sedimentazione di valori progettuali e pratiche operative all’opera nei decenni.

Un’European way of life[12], come lascito di ultra-sessantennali esperienze di cooperazione interstatuale.

«Imperniata sull’idea che fare da soli non può funzionare. Questa idea può essere alla base di un nuovo inizio. Riscrivere le regole non sarà certo più facile di quanto sia stato crearle. Ma le crisi odierne dell’Europa ci chiedono interventi audaci e un impegno a rinnovare la promessa su cui nacque, oltre sessant’anni fa, il progetto europeo» (J.S. pag. 45).

NOTE

[1] T. Padoa Schioppa, il Mulino 1/2006

[2] T. Judt, L’età dell’oblio, Laterza, Roma/Bari 2011 pag. 385

[3] J. E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002 pag. 82

[4] J. Fischer, Se l’Europa fallisce? Ledizioni, Milano 2015 pag. 29

[5] J. B. Thompson, “Suffering: the human and social costs of economic crisis”, Europe’s crises, cit. pag. 150

[6][6] M. Wieviorka, “Europe facing Evil: Xenophobia, Racism, Anti-Semitism, Terrorism”, ivi pag. 205

[7] M. Castells, Il potere delle identità, Università Bocconi Editore, Milano 2003 pag. 291

[8] C. Crouch, “The double crisis of European Social Democracy, Eurape’s crises, cit. pag. 294

[9] P. Pellizzetti, “Italy: autumn of the second republic, ivi. pag. 365

[10] C. Offe, “Narratives of Responsibility”, ivi. pag. 269

[11] M. Castells, Nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2002 pag. 477

[12] T. Judt, Postwar, Laterza, Roma/Bari 2017 pag. 924
(29 giugno 2020)





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