Alziamo il velo anche sui nostri tabù
di Lilli Gruber
L’Islam non obbliga affatto le donne a coprirsi i capelli, tanto meno a nascondere il volto. Parola dell’avvocatessa iraniana, premio Nobel per la Pace, Shirin Ebadi. E di molte altre intellettuali musulmane – da Fatima Mernissi a Shakla Haeri, da Salma Yaqoob a Leila Ahmed – che si battono con coraggio e determinazione per i diritti delle loro "sorelle". A cominciare da quello di indossare o meno il velo.
Sono loro – assieme a molte altre, meno famose ma altrettanto importanti – le protagoniste di una rivoluzione pacifica che sta scuotendo il mondo musulmano, la chiamerei "jihad rosa". Che ha deciso di riappropriarsi del Corano, ripulendolo dalle troppe "incrostazioni" misogine, per tornare finalmente alle origini, al messaggio di uguaglianza diffuso dal Profeta. Dopo quattordici secoli di interpretazioni maschili e maschiliste, le musulmane rivendicano la possibilità e il diritto di rileggere i testi sacri alla luce dei tempi nuovi. Dimostrando che non esistono norme secondo le quali debbano nascondersi sotto il velo o il niqab, e non ci sono versetti del Coranoche prescrivono di picchiarle se disobbedienti, di infibularle o di darle in sposa ancora bambine a uomini che anagraficamente potrebbero essere i loro padri o i loro nonni.
Per non parlare del divieto di guidare, ancora in vigore in Arabia Saudita: inutile dire che nel settimo secolo dopo Cristo le automobili non c’erano.
La stessa Shirin Ebadi, che ho intervistato diverse volte negli ultimi anni, me l’ha ripetuto con forza: non è il Corano ma le società ancora patriarcali che opprimono la donna!
Come lei, tutte le donne "illuminate" – e sono tante – che ho incontrato nei miei viaggi in Medioriente hanno ribadito che per i musulmani la religione – e i suoi simboli, come ad esempio il velo – è più importante che per noi occidentali, e che costituisce un potente collante per la loro identità. Per questo non si battono contro l’Islam, ma si fanno promotrici del cambiamento all’interno della cornice della loro religione, usando innanzitutto "l’arma" dell’istruzione. E’ grazie alla conoscenza che le donne possono difendersi, realizzarsi professionalmente, scegliere con chi e quando sposarsi, se e per chi votare e se coprirsi il capo.
Quella che ha rinchiuso le donne dietro gabbie di stoffa, relegando molte di loro ai margini della società, spiegano le rappresentanti dell’avanguardia intellettuale femminile, è una lettura oscurantista dei testi sacri che nulla ha a che fare con i precetti di Maometto. Lo stesso velo – chador, turban, hijab, a seconda di dove ci si trovi a indossarlo – ha finito per rappresentare esclusivamente lo stereotipo della donna oppressa e sottomessa, anche se la questione è in realtà molto più complessa.
A seconda delle circostanze e dei Paesi, il fazzoletto assume significati diversi: è un elemento di identità, di protezione, di tradizione o di sottomissione.
Portarlo o meno per le "femministe islamiche" deve essere una libera scelta: che sia un simbolo religioso o politico poco importa, basta che non sia un’imposizione.
Molto più che il capo coperto, ad accomunare le tante "Figlie dell’islam, come ho cercato di spiegare nel mio penultimo libro – dal Marocco all’Iran, dall’Egitto all’Arabia Saudita, dalla Turchia al Qatar – è piuttosto la consapevolezza che combattere per i propri diritti significa lottare per i diritti democratici di tutti.
In Yemen, dove l’80 per cento delle donne che vive nelle zone rurali è analfabeta, non deve essere difficile convincerle che nel Corano è prescritta la loro subordinazione al maschio: nessuna di loro potrà mai provare il contrario. Invece in Iran, dove il chador è legge dello Stato ma dove le donne rappresentano oltre il 60 per cento della popolazione universitaria, il fermento delle nuove generazioni femminili è straordinariamente vivo e coraggioso ha comunque trovato il modo di sfidare il regime degli ayatollah attraverso l’abbigliamento.
Perfino nell’era fanatica del presidente ultraconservatore Ahmadinejad, per le strade di Teheran le ragazze si truccano, indossano veli colorati e chador aderenti e sfoggiano unghie smaltate calzando i sandali, che un tempo erano proibiti.
Bisogna aiutare le donne a cambiare la mentalità retrograda che le mortifica dietro ai vari veli, garantendo loro educazione e istruzione, che sono gli unici strumenti a loro disposizione per poter decidere in piena autonomia.
Lo stesso vale per le immigrate musulmane che arrivano nei nostri paesi, dove un punto fermo resta il rispetto delle leggi dei singoli stati nazionali.
Per l’Italia questo significa libertà di velo ma anche no al niqab e al burqa, che rendono impossibile l’identificazione di chi li porta.
Sotto l’hijab le musulmane si innamorano e si fidanzano, si divertono, studiano, piangono e soffrono esattamente come noi. Che sia arrivato il momento di alzare il velo anche sui nostri tabù?
(6 ottobre 2008)
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