American beauty: note su cinque film statunitensi

Giona A. Nazzaro

Il cinema statunitense, nonostante tutto, continua a offrire l’immagine di un’industria che continua a dialogare con la storia del proprio paese mentre ingaggia costantemente un confronto serrato con la propria storia, in quanto parte integrante dell’industria dello spettacolo e con la propria tradizione testuale.

I migliori film degli ultimi mesi, affermazione che può essere fatta senza pensare troppo alle conseguenze, in quanto i margini di errore sono veramente esigui, provengono quasi tutti dagli Stati Uniti (senza per questo implicare dogmatici apriorismi qualitativi che lasciamo volentieri ai reduci del macmahonismo).

L’uscita a distanza ravvicinata di American Hustle, C’era una volta a New York, The Counselor, Nebraska e Dallas Buyers Club (in attesa di The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese) permette di scattare un’istantanea del cinema a stelle e strisce che dovremmo potere definire “entusiasmante” se non fosse per i soliti residui di pudore e prudenza che devono comunque guidare il ragionamento critico.

Attualmente non vi è un’altra cinematografia in grado di presentare un’offerta talmente diversificata (senza contare The Canyons di Paul Schrader e Dietro i candelabri di Steven Soderbergh, il cui ricordo è ancora vivido negli occhi) capace di offrirsi, contemporaneamente, come un’immagine critica sia del proprio agire che del proprio tempo storico.
Non sin tratta quindi di unire in un denominatore comune film che, con ogni evidenza, poco hanno da spartire l’uno con l’altro.

Questi film, per parafrasare una celebre formula truffauttiana, offrono la possibilità di pensare “una certa tendenza del cinema statunitense” e, senza timore di sbagliarsi troppo, potranno essere considerati, in un futuro non troppo distante, delle autentiche sonde dell’immaginario collettivo contemporaneo che stiamo attraversando… ora. E questo al netto della semplificazione dei giudizi strettamente qualitativi, del pollice su pollice verso, del “bello-brutto” che domina il ragionar di cinema nazionale.

I cinque film in questione, attraverso modalità e strategie assolutamente originali, e ciò non implica automaticamente un giudizio faziosamente positivo sull’esito dei singoli titoli, sono il cinema statunitense di oggi. A loro modo questi film esprimono alcuni dei migliori aspetti di una cinematografia nazionale che continua a dialogare instancabilmente non solo con la voglia di cinema che inevitabilmente alimenta, ma a mettere in discussione il contesto stesso preposto ad accoglierli.

Se James Gray in C’era una volta a New York intona un lamento funebre per la nascita di una nazione che soccombe sull’altare di un capitalismo aurorale, giocando consapevolmente con gli elementi nobili della cultura europea come il teatro e la lirica, inserendo il (sogno del) cinema nella figura del prestidigitatore interpretato da Jeremy Renner, American Hustle permette di osservare come farsa il medesimo sogno di farcela, di sopravvivere. E sia nel film di Gray che in quello di Russell, sono le maschere a reggere le fila del gioco. L’apparenza, l’identità transitoria. Elemento inafferrabile, proprio come il denaro che spinge invece il Woody di Nebraska a mettersi per strada per intascare l’improbabile vincita di un milione di dollari e il procuratore del film di Ridley Scott a darsi al narcotraffico.

Al netto delle assonanze tematiche, tutti questi film procedono come una verifica negativa. L’identità di una nazione passa attraverso la ridefinizione non solo del proprio rapporto nei confronti del denaro (che quasi sempre non può che essere perdente) ma nel confronto di questo con la storia del proprio paese.

Come dire che il paese lo si ricostruisce ogni volta daccapo. D’altronde non si può fare altrimenti se si desidera vivere in esso. Come d’altronde scopre il Ron Woodruff di Dallas Buyers Club, film nel quale un immenso Matthew McConaughey deve ricostruire se stesso alla luce della malattia che lo configura, contro ogni suo desiderio, come un corpo sociale non desiderato.

Cosa che a suo modo scopre anche il procuratore di Ridley Scott, convinto di potere concedersi il lusso di sospendere la sua esistenza dietro l’intangibile solidità dei codici, spostare la propria appartenenza a un altro corpo sociale spostandosi nel denaro che passa di mano.

Invece il corpo esiste e può essere spezzato, come spiega l’eccellente Ruben Bladès a un attonito Michael Fassbender (e, d’altronde, la centralità del corpo è l’unica idea schiettamente politica di un’opera fallimentare come 12 Years A Slave di Steve McQueen).

Esiste il corpo di Woody, il sublime Bruce Dern, che arranca lungo le strade del Nebraska, esistono i corpi di American Hustle, colti nella loro furia metamorfica, esistono i corpi fragili e vulnerabili schiacciati dalla storia di C’era una volta a New York.
E tutti questi corpi sono messi in relazione a un paese che cambia, che li sorpassa, che li dimentica o che addirittura li vorrebbe obliterare.

Non si vince mai in questi film dei quali il più amaro di tutti è il western-noir arroventato dal sole di Ridley Scott, scintillante come una linea di coca immacolata.
Ed è attraverso questi film, dei quali ognuno tenta di pensare una possibilità di neoclassicismo (aspirazione che vale, questo sì, a uscire quasi dalla storia proprio mentre si ingaggia con essa un serrato confronto) ed è una possibilità che poco ha a che vedere con la categoria del “neo-vintage” della quale la vittima predestinata è stato l’esilarante American Hustle (d’altronde, David O. Russell sta a Scorsese proprio come Sorrentino sta a Fellini, e non c’è davvero niente di male…).

Infine, il piacere. Tutti i film presi in esame si giocano spudoratamente la carta del piacere, foss’anche un piacere malinconico, in minore, come nel caso di Nebraska, o calligrafico, dichiaratamente inattuale come nel caso di Ridley Scott, probabilmente il film più ferocemente bistrattato degli ultimi mesi. Un piacere puro, assoluto, che American Hustle celebra senza remore. Un piacere talmente violento da risuonare sulle note di Life Is Strange dei T.Rex in Dallas Buyers Club o da evocare senza alcun timore reverenziale Coppola e Leone in C’era una volta a New York.

Ecco, se proprio si dovesse scegliere un aggettivo per riunire questi film, senza dimenticare Schrader e Soderbergh, non potrebbe essere che “contemporaneo”. Cinema che si confronta con la propria storia in quanto industria e con il cinema stesso in quanto linguaggio e forma.
Ed è proprio questo conflitto formale e politico, ingaggiato su due fronti talmente vitali, a garantire la vitalità del miglior cinema statunitense contemporaneo.

(23 gennaio 2014)



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