Amy Coney Barrett al tribunale della politica
Elisabetta Grande
Stanotte Amy Coney Barrett, 48 anni, conservatrice e fervente cattolica, è stata confermata quale giudice della Corte Suprema statunitense dal Senato, con tutti i voti dei repubblicani salvo uno, quello di Susan Collins, senatrice del Maine. Le illusioni di chi sperava che più di un senatore repubblicano votasse contro la sua conferma si sono così amaramente infrante di fronte a quello che a molti è parso un colpo di mano, messo a punto da un Donald Trump che certamente non poteva farsi sfuggire l’occasione che la dipartita di Ruth Bader Ginzburg gli aveva servito su un piatto d’argento.
A partire dal 1803, da quando cioè con il famoso caso Marbury v. Madison – grazie al genio del suo Chief Justice John Marshall – si auto attribuì il compito di controllare la costituzionalità delle leggi e poi anche degli atti dell’esecutivo, la Corte Suprema statunitense riveste un ruolo importantissimo all’interno del sistema democratico di checks and balances americano, giacché è da allora preposta a limitare gli eccessi tanto dell’esecutivo, quanto del legislativo. Il controllo che, invece, su di lei si esercita da parte degli altri due poteri passa per la scelta dei suoi membri – 9 per legge federale – che vengono nominati dal potere esecutivo – il Presidente – e confermati dalla camera alta del legislativo – il Senato.
Si tratta di un meccanismo di poteri e contropoteri che funziona se ciascuno fa la sua parte con senso di responsabilità istituzionale, perché nessun sistema è perfetto e il rischio che si inceppi è sempre dietro l’angolo. Così democrazia avrebbe voluto che si fossero attesi i risultati elettorali imminenti per procedere alla nomina e alla conferma del nuovo giudice, che siederà a vita nell’organo giudiziario più influente del paese. Siccome infatti la Corte Suprema statunitense, attraverso il così detto judicial review, disegna la mappa delle libertà costituzionali cui gli Stati e l’ordinamento federale devono attenersi – definisce cioè il panorama dei diritti fondamentali dei cittadini americani tutti – quando la sostituzione di un giudice di quella Corte è molto a ridosso delle elezioni, principio democratico vorrebbe che siano il Presidente e il Senato espressi dall’imminente voto popolare a nominare e confermare chi potrà condizionare in maniera così incisiva le libertà fondamentali del popolo stesso nel prosieguo.
È un principio che, per quanto non scritto da nessuna parte, da quando gli Stati Uniti esistono è però sempre stato rispettato. Si tratta, infatti, di una regola di fair play che contribuisce a rafforzare la credibilità del sistema e la fiducia che la gente ripone in esso: proprio per questo motivo è più importante di qualsiasi principio messo nero su bianco. Nessuno, prima di Donald Trump e dell’attuale Senato – a stretta maggioranza repubblicana – aveva pensato di metterlo in discussione.
Il caso della nomina di un giudice della Corte in cui in precedenza si era andati più vicini alle elezioni presidenziali è stato quello del successore del Chef Justice Evans Hughes, ritiratosi nel 1916 a 150 giorni dalle stesse e sostituito prima del voto di novembre di quell’anno. Quando, invece, per evitare uno stallo della Corte (che, se si divide 4 a 4, non può raggiungere una decisione giacché il voto del Chief Justice non è decisivo) nel 1956 il Presidente Dwight Einsenhower nominò un giudice della Corte a ridosso delle elezioni, non solo lo fece in via temporanea (con un così detto recess appointment), ma scelse William J. Brennan, un esponente del partito avverso: quello democratico. Dopo la vittoria del suo secondo mandato, Eisenhower nominò a vita, con l’accordo del Senato, Justice Brennan, che diventò uno dei giudici progressisti più influenti della storia della SCOTUS (Supreme Court of United States).
Altro stile e altro senso delle istituzioni, quello di Dwight Eisenhower rispetto a Donald Trump che, insieme al Senato in carica, non teme le contraddizioni quando – a seguito della dipartita a un mese e mezzo dalle elezioni della giudice più progressista che la Corte abbia conosciuto – insedia a vita una giovanissima esponente di pensiero dichiaratamente opposto. E ciò dopo che a Barack Obama, che voleva nominare il sostituto di Antonin Scalia deceduto nel febbraio del 2016 (a 269 giorni dal voto), quello stesso Mich McConnell – leader della maggioranza repubblicana in Senato – che ha oggi entusiasticamente sostenuto la conferma della Barrett, aveva invece opposto il principio secondo cui per ragioni di democrazia avrebbe dovuto essere il nuovo Presidente a scegliere il suo successore.
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Il senso delle istituzioni fa però difetto, si sa, al Presidente in carica, che non ha tema di affermare come la Corte Suprema, così come integrata dalla sua recente nomina: «Determinerà le sorti del diritto per i prossimi 50 anni, che sia la vita o il secondo emendamento». La Corte, nella sua nuova composizione di 6 giudici conservatori su 9, ha infatti la forza di cambiare le sorti del panorama giuridico americano, rimettendo in discussione diritti come l’aborto, il matrimonio fra persone dello stesso sesso o quel poco di cura che l’Obama Care Act aveva assicurato ai più deboli. Tutto ciò nonostante a breve, un diverso Presidente e un diverso Senato – espressione in maggior misura dell’opinione pubblica – avrebbero magari invece potuto consentire un’evoluzione giuridica di quelle libertà fondamentali in sintonia con la visione non della minoranza, ma della maggioranza.
La fretta e l’incuranza di quelle regole democratiche di fair play, fondamentali per infondere fiducia nella gente verso il sistema, che hanno portato Trump a nominare in fretta e furia Amy Coney Barrett si spiega poi anche, e soprattutto, in termini di prossima battaglia giudiziaria per le presidenziali, poiché con ogni probabilità, così come ai tempi di Bush v. Gore nel 2000, sarà la Corte Suprema, e non il popolo, a decidere chi vincerà.
La democrazia statunitense sarà allora davvero alle corde, a meno che non sia Amy Coney Barrett a dimostrare quel senso di responsabilità istituzionale che è finora mancato al Presidente che l’ha nominata.
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