Andare in guerra contro la mafia con Letizia Battaglia

Angelo d’Orsi

Avete ancora un mese esatto. Affrettatevi, dunque: non rinunciate a visitare l’esposizione di fotografie di Letizia Battaglia, all’isola di Giudecca, a Venezia. Oltre tutto la Giudecca è, rispetto alla città, quasi un paese, e insieme un’oasi di pace, dove radi turisti osano avventurarsi, fortunatamente.
La mostra, curata da Francesca Alfano Miglietti, alla Casa dei Tre Oci, è un evento magari che non oso definire memorabile, ma certo di grandissimo rilievo, anche per la quantità inusuale di foto esposte (ben trecento, di cui non poche inedite); evento tanto più notevole oggi, perché fra i diversi fili conduttori delle immagini fermate dagli obiettivi fotografici (prima in analogico, poi in digitale) da questa formidabile donna palermitana, domina il tema mafia. Tema eterno, si potrebbe commentare, ma tema che mostra una recrudescenza sostanziale mentre un ministro inetto quanto chiacchierone vanta successi, appunto nella lotta alla mafia, che non raggiunge. Scrive il sindaco Leoluca Orlando, nella sua Presentazione al bel catalogo (pubblicato da Marsilio): “Letizia Battaglia è stata testimone e voce di denuncia di un tempo in cui la mafia governava Palermo. I suoi scatti hanno contribuito a gridare al mondo l’isolamento di una città e di una realtà avvolte dalla vergogna, dalle connivenze, dal sistema di potere politico-mafioso”.
Naturalmente Orlando cerca di sostenere la differenza tra la Palermo di oggi in cui la mafia sarebbe stata messa alle corde e la città che egli governa risanata da ogni punto di vista, e la Palermo di ieri. Una prospettiva ottimistica e implicitamente autoelogiativa, che in realtà la Battaglia smentisce in varie dichiarazioni. In una intervista, precedente alla mostra veneziana affermava, ad esempio: “non vanno bene le cose, non vanno bene. Ho questa lunga vita dietro. Ho sognato, ho creduto di combattere per la causa giusta. La mafia è ancora qua, nascosta, anzi visibile ma non condannabile perché difficile, lo sai sì, si fanno pure eleggere. Non solo a Palermo, non solo in Sicilia, nel Sud e spesso contaminano anche il Nord, anzi lo hanno già contaminato. Non so su che cosa dovrei sperare, però non sono credente”. E per il futuro pensa di dedicarsi al paesaggio, esterno e interiore, ritrarre l’anima e i suoi turbamenti, insomma. Del resto sarebbe quasi un ritorno al principio: “La fotografia è stata la mia salvezza. Ero una donna inquieta e attraverso la macchina fotografica ho potuto trovare un equilibrio”. Non è casuale la sua predilezione per i ritratti femminili: in ogni donna forse è sè stessa che fotografa. Ora, la delusione (sul piano politico, sociale, culturale) la induce a pensare che in fondo anche la denuncia giornalistica, fatta di parole e, nel suo caso, essenzialmente di immagini, serva a poco, se non proprio a nulla. Un ripiegamento annunciato?
Ma tornando alla mostra alla Giudecca, a ben vedere, la Battaglia riporta la mafia in Sicilia e specialmente nella sua amatissima Palermo: “Amavo Palermo, amo la mia terra, sentivo di dover vivere come persona in tutti i modi opponendomi all’orrore”. E la mostra può essere letta come una dichiarazione d’amore a questa città meravigliosa e tremenda, dove le strade raccontano secoli di storia, ma grondano ancora del sangue di giudici, sindacalisti, poliziotti (fra tutto spicca Boris Giuliano, che sembra avere un posto di particolare riguardo nelle foto esposte), giornalisti, militanti politici, amministratori: tutti coloro che, con le parole e con gli atti, hanno cercato di opporsi a quel mostruoso, apparentemente invincibile Stato nello Stato che è Cosa Nostra, con tutte le sue innumerevoli diramazioni e declinazioni. Letizia, alla quale il destino ha assegnato un cognome che sembra scelto da lei stessa, tanto corrisponde al suo modo d’essere, ha fatto del giornalismo fotografico una scelta non soltanto professionale, ma di vita. E si è dedicata appunto, con tanto amore e altrettanta sofferenza, al suo – al nostro, aggiungo – Mezzogiorno, di cui la Sicilia è la più dolorosa e felice rappresentazione. 

Sicilia e Sud dominano nelle trecento immagini, tratte dall’immenso archivio oggi finalmente ordinato e vivente ai Cantieri della Zisa di Palermo, dove Letizia ha realizzato il suo sogno: il Centro Internazionale di Fotografia, in cui dirige le mostre di fotografia storica e contemporanea. Immagini che si possono vieppiù apprezzare nella esposizione oltre modo efficace sulle pareti della Casa dei Tre Oci, affacciata sul Canale della Giudecca, mentre dalle finestre occhieggia la laguna, in un gioco di luci e ombre che più suggestivo non potrebbe essere (ma una maggior attenzione alle didascalie per facilitare il visitatore sarebbe stata necessaria!).

Non c’è solo la grande criminalità nelle foto di questa straordinaria cronista con la macchina fotografica a tracolla, una giornalista che ha lavorato al quotidiano del Pci siciliano L’Ora, nella sua stagione più viva e feconda, nei decenni ’70-‘80, quando quel giornale da locale per diffusione, divenne nazionale per capacità informativa e per autorevolezza acquisita sul campo, pur essendo un foglio di partito.  In fondo il suo nome, Letizia, che rispetto al cognome sembra quasi dar vita a un ossimoro, ci ricorda che la lotta si incrocia con l’amore. E lei l’amore lo ha conosciuto, e lo racconta volentieri, con un animo femminile e femminista, che ha messo in pratica una cosa che sentiva confusamente, ma che solo a un certo punto forse ha compreso perfettamente: guardare e dunque fotografare con sguardo di donna, e guardare (e fotografare) soprattutto le donne, a cominciare dalle bambine, le più innocenti, anche se la povertà, il degrado, e le umane cattiverie guastano fin dai primi passi.
Eppure nelle immagini fermate dall’obiettivo di Letizia queste bimbe, queste fanciulle dai grandi occhi scuri, dai lunghi capelli neri, vestite di stracci, o poco più, scopriamo tenerezza e abbandono, dolore e paura, infiniti tormenti e piccole gioie che consentono di continuare a vivere. Sono i loro sorrisi che ti prendono il cuore, gli sguardi che ti penetrano l’anima, i gesti che ti fanno percepire, rispetto alle loro storie di vita, insieme, contiguità ed estraneità. La bambina con il pallone che fissa l’obiettivo quasi a volerlo perforare (una immagine che è un capolavoro, del 1980), o l’altra bambina, dallo sguardo basso, che lava i piatti in una trattorietta di Morreale (quella che, come la Battaglia appurò, non era mai andata a scuola, 1979) valgono l’intera mostra.
Poi cambi sala, o semplicemente lanci lo sguardo su altra parete, e scopri altrettante opere d’arte, che funzionano in quanto sono frammenti di vita, anche quando, come la Battaglia spiega, nei due bei docufilm proiettati in due distinte sale, lei stessa in qualche modo costruisce un set in cui inserire e guidare i suoi personaggi.
Reportage dunque anche come lavoro artistico, anche se la documentazione del fatto, attraverso immagini che sono sempre di esseri viventi (umani o no), guardati con una pietas che commuove. Si ripercorre così la storia d’Italia, da Palermo, nelle sue nefandezze ma anche nei suoi momenti gloriosi, che però celano spesso il turbamento. Scorrono nelle sale i volti asciutti di Pasolini, Sanguineti, Berlinguer…; ci si sofferma su quello preoccupato e forse sconfortato del giudice Roberto Scarpinato, in uno dei momenti del lungo processo Andreotti – un processo a un intero sistema politico-mafioso e in quanto tale destinato a rimanere senza esito, come fu; o sull’immagine di due innamorati su un prato davanti alle austere colonne del tempio di Segesta, che sembrano sereni, ma come un’aura di tempesta sembra gravare su di loro…

Insomma, un’esperienza visiva dall’enorme peso emotivo, ma anche un’occasione per ripercorrere la storia di un Paese, e per interrogarsi su un passato che non passa.

(22 luglio 2019)



 



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