Andreas Gursky, realtà e visione

Mariasole Garacci

A Roma da Gagosian e a Londra alla Hayward Gallery sono in corso due importanti mostre del fotografo tedesco più incisivo della sua generazione: nelle sue immagini, Gursky svolge il tema della nostra esperienza percettiva mettendolo in relazione con il nostro atteggiamento culturale riguardo l’esistente.



Andreas Gursky, esponente insieme a Candida Hӧfer, Thomas Struth, Elger Esser e Thomas Ruff della Scuola di Düsseldorf promossa da Bernd e Hilla Becher tra il 1976 e il 1997, è da considerarsi a pieno titolo uno degli artisti più importanti della sua generazione: nel suo lavoro, in cui la manipolazione digitale delle immagini travalica il linguaggio fotografico in direzione di un’arte propriamente pittorica, si legge un esempio di ritorno del concetto di Sublime nell’arte contemporanea. Concetto qui inteso come discorso sulla natura dell’esperienza visiva e come evocazione a partire dal dato concreto di una dimensione astratta e indefinibile, e che si trova, del resto, nascosto già nell’oggettivismo documentario dei Becher e suggerito nella produzione di altri fotografi usciti dalla loro scuola. Seppure elaborato con tecniche e risultati diversi, in questo gruppo resta, dei Becher, anche l’approccio frontale agli spazi e agli oggetti fotografati, nonché un’apparente ripetitività: basti pensare, per fare due esempi diversi tra loro, oltre a Gursky stesso, agli ampi ambienti vuoti di Hӧfer e ai ritratti di Ruff.

Nel corso degli anni, però, Gursky dilata progressivamente i confini dell’oggettivismo dei suoi maestri, trovando nel grande formato e nella post-produzione gli strumenti per evidenziare sempre di più una duplice riflessione sui meccanismi visivi della percezione e sul nostro atteggiamento culturale riguardo oggetti e categorie dell’esistente; aspetti che, come si vedrà a breve, sono tra loro collegati. Una delle soluzioni a cui Gursky tipicamente ricorre è la giustapposizione di più fotogrammi da punti di vista affiancati e perfettamente a fuoco nei minimi dettagli, in modo tale da creare una visione innaturalmente nitida per l’occhio umano e una prospettiva diversa da quella con cui in Occidente, convenzionalmente, si rende la percezione dei piani spaziali, concentrata verso un punto di fuga. Questa manipolazione ha l’effetto di eliminare qualsiasi riferimento alla soggettività (il punto di vista con le relative direttrici) e di potenziare l’oggettività della visione: in Paris, Montparnasse (1993, ora in mostra a Londra), raffigurando gli edifici su un piano orizzontale omogeneo e in ogni punto equidistante dallo spettatore, questi ci vengono mostrati come sono davvero, nell’aspetto che noi non potremmo percepire con la nostra visione distorta dalle leggi dell’ottica. Gursky, insomma, non modifica l’immagine per creare qualcosa di falso; la modifica per creare qualcosa di più vero.

Questo discorso sulla percezione viene esteso, come si accennava, a una riflessione più ampia e filosofica. In Amazon (2016, anch’essa esposta a Londra), Gursky torna a giustapporre diverse fotografie, in modo che ogni area sia perfettamente a fuoco, ottenendo così un’immagine che il nostro occhio non potrebbe registrare, di chiarezza e di nitore innaturali, che tuttavia è, come si è spiegato, più oggettiva. Però, mentre in questa foto vediamo lunghi scaffali pieni di libri (risultato di un’interpolazione in studio), sappiamo che nei magazzini di Amazon gli oggetti non sono davvero disposti per categorie merceologiche, bensì per ordine di arrivo e con un codice digitale progressivo: nel momento in cui mostra la realtà fisica che la vista non è in grado di percepire, Gursky opera, allo stesso tempo, una finzione che rivela il nostro modo di ordinare per famiglie di idee platoniche cose ed elementi sparsi che compongono disordinatamente il mondo. Lo stesso modo che usiamo, presumibilmente, per ordinare anche informazioni, concetti, collegamenti tra idee. Dallo scardinamento del sistema convenzionale usato per ricondurre il mondo fisico a una raffigurazione per noi afferrabile (la prospettiva albertiana), si procede alla rivelazione dei diversi livelli di categorizzazione dello scibile. L’altissima risoluzione dei dettagli nelle immagini di Gursky, inoltre, crea uno stringente paradosso che ci spinge a un’ulteriore presa di coscienza: come non è possibile sperimentare naturalmente la visione del tutto in un unico colpo d’occhio, come invece accade in una fotografia, allo stesso modo la nostra attenzione e la nostra conoscenza del mondo sono necessariamente parziali e soggettivi.

Nella serie Bangkok in mostra da Gagosian a Roma, un lavoro del 2011 dedicato al fiume Chao Phraya, osserviamo un altro aspetto degli interventi di Gursky: i riflessi tremolanti e le increspature della superficie dell’acqua sono trasformati in forme di una composizione astratta grazie all’estrema saturazione dei colori e all’aumento del contrasto; la ricorrente interpolazione dei fotogrammi è usata ora per bilanciare con elementi microscopici – detriti industriali, banchi di vegetazione, grumi di schiuma chimica, fiori del giacinto acquatico che infesta il Chao Phraya – un insieme macroscopico sempre più pittorico che si trova al passaggio tra l’Impressionismo (non a caso, il movimento che ha studiato la nostra percezione dei colori e della luce), e l’arte astratta di Rothko e di Barnett Newman. Le fasce longitudinali che caratterizzano i dipinti di quest’ultimo, del resto citato esplicitamente in Review (2015), sembrano qui fatte vibrare e trasformate in onde sonore (Bangkok I e V); la superficie dell’acqua, ora più livida, in cui si specchiano le nuvole, ora densamente nera e risollevata da marezzature sature di colore elettrico, ricordano alternativamente Monet o il cangiantismo di Renoir (Bangkok II).

Si potrebbe indagare ulteriormente sulle diverse fonti artistiche di tutta l’opera di Gursky nel suo complesso, ricordando, ad esempio, i piani spaziali sovrapposti e schiacciati di A Bigger Splash di David Hockney (1967), o gli esercizi sul colore di Georges Seurat, il cui puntinismo viene citato dal fotografo tedesco in Cans (2007); o, ancora, la nitidezza dei singoli dettagli anche lontani, con il conseguente effetto paradossale sulla nostra visione, che chiaramente deriva dalla pittura fiamminga (basti pensare a Pieter Bruegel il Vecchio). Ma ciò che è importante sottolineare è che questo fotografo unisce consapevolmente e con accortezza fotografia e pittura attingendo da quest’ultima non un immaginario visivo né semplicemente la libertà espressiva, come spesso si legge, ma precisamente quei temi di riflessione sulla percezione che troviamo svolti ed emblematizzati nelle sue immagini, a loro volta usati come metafora della nostra intelligenza e dell’insanabile contrasto tra soggettività e oggettività, tra realtà e visione.

Bangkok

Fino al 10 marzo 2018

Gagosian

Roma, Via Francesco Crispi n.16

Orario: da martedì a sabato, dalle 10.30 alle 19.00

www.gagosian.com

Andreas Gurs
ky

Fino al 22 aprile 2018

Hayward Gallery

Londra, Southbank Centre

Orario: tutti i giorni tranne il martedì, dalle 11.00 alle 19.00

www.southbankcentre.co.uk

(28 febbraio 2018)



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