L’antifascismo: una categoria da archiviare?

Angelo d’Orsi



Ignoro la motivazione che ha spinto Alberto De Bernardi a buttar giù le veementi pagine di questo libello, che in 160 pagine mira niente meno che a fare i conti con fascismo e antifascismo, in un momento in cui, a suo giudizio, impropriamente si tirano in ballo queste due categorie desuete e ormai fuori della storia (De Bernardi dixit). L’autore ha ricoperto prestigiosi incarichi, ultimo quello di presidente dell’Istituto Parri, ossia il vecchio, glorioso Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (INSMLI), dal quale è stato defenestrato con una votazione che palesemente esprimeva il rifiuto di posizioni storiografiche, e civili, che sono parse, via via, nel corso degli anni, estranei alla tradizione e al sentimento dell’Istituto. In una nota, vagamente sprezzante, in questo suo libro, De Bernardi cita, senza farne il nome (evidente segno che quella sconfitta non è stata digerita), il suo successore (per la cronaca, Paolo Pezzino), additando, velatamente, alla pubblica ignominia il Parri (post-De Bernardi) e l’Anpi.

La tesi storiografica e politica di questo libro è in sintesi la polemica contro “l’eterno ritorno del fascismo”, non già come un fatto, bensì come una “narrazione” che una sinistra irriducibilmente antiquata si ostina a proporre. E spaziando inutilmente (per dare la consistenza di libro a quello che poteva essere con maggior profitto del lettore, soltanto un articolo) lungo l’intera storia d’Italia, De Bernardi pretende di dare una giustificazione storica alla propria tesi, di un fascismo oggi inesistente e dunque, conseguentemente, di un antifascismo superfluo, pretestuoso, e anzi, pericoloso. Proprio questo pare essere l’obiettivo polemico dell’autore, l’antifascismo, al quale certo egli concede l’onore delle armi, confinandolo tuttavia in un passato che non ritorna, che non ha senso evocare: l’antifascismo odierno gli appare, in sintesi, l’ ago calamitato su cui si attacca tutta la limatura di ferro di vecchi nostalgici della Resistenza e nuovi estremisti di sinistra, gli uni e gli altri spalleggiati da “intellettuali, giovani storici, giornalisti, sindacati e associazioni combattentistiche” (l’Anpi, I presume…), tonanti contro la “deriva fascista che starebbe impossessandosi del paese, impersonata dal volto torvo di Matteo Salvini” (p. 9).

De Bernardi non vede alcuna deriva (fa del sarcasmo già sulla parola), e pur riservando giudizi critici nei confronti di “sovranisti” e “populisti”, non esita a ridicolizzare coloro che esprimono inquietudine per la situazione presente di una Italia, dove invece a suo giudizio la democrazia funziona, e non teme assalti da Hyksos interni. Non ci sarebbe, a suo giudizio, nessuna “onda nera” che rischia di sommergere il paese. Questo il punto di partenza che muove l’autore, che tuttavia non sembra voler assumere il compito di tranquillizzarci davanti a Salvini, Casa Pound, il razzismo diffuso, e vistosamente in crescita, la caccia all’immigrato, la chiusura dei porti alle navi delle ONG che salvano migranti nelle acque del Mediterraneo, la cancellazione di straordinarie esperienze di accoglienza come Riace e Baobab, la tolleranza verso i rigurgiti di una destra violenta e la durezza repressiva verso chi cerca di contrastarla, la liberalizzazione della vendita di armi, la licenza di uccidere (spacciata come “legittima difesa”), la messa in mora del Parlamento, gli attacchi a magistrati e giornali non allineati al governo, e via seguitando. L’autore, piuttosto, sembra voler rivestire i panni del fustigatore dell’antifascismo come residuo fuori tempo massimo di una guerra finita e ormai lontana, i cui “rimasugli” ideologici dovrebbero, per De Bernardi, essere seppelliti al più presto. In fondo fascismo e antifascismo sarebbero semplicemente due passepartout di cui si fa abuso e che non hanno più, oggi, alcun valore euristico e sono fuorvianti sul piano politico: insomma, categorie che non aiutano a capire la situazione italiana né possono essere usate per orientarsi in essa, e agire, politicamente, di conseguenza.

Archiviare l’antifascismo, dunque! Ecco il motto che promana dalle pagine di questo pamphlet camuffato da saggio storico, con un periplo della vicenda italiana che tira inutilmente e non sempre a proposito, Giolitti e Togliatti, De Gasperi e Renzi, Mussolini e Berlusconi, Benedetto Croce e Piero Gobetti, Antonio Gramsci e Bettino Craxi… Una sorta di andirivieni nei 150 anni di storia italiana, con frequenti cenni al contesto internazionale: un faticoso andirivieni, con un fraseggio pesante, e un’argomentazione poco limpida nei suoi passaggi. Servendosi a suo piacimento di Renzo De Felice, accostato in un improbabile parallelo a Norberto Bobbio (dimenticando che nel loro dialogo, fu Bobbio a porre una domanda a cui lo storico reatino non seppe rispondere: “Se avessero vinto loro, che cosa sarebbe accaduto?”), gettando alle ortiche la tesi di Umberto Eco sul “fascismo originario”, prototipo di ogni fascismo storico (una idea che del resto non era lontana da quella di Bobbio che aveva provato a categorizzare il fascismo sul piano teorico-ideologico), De Bernardi riprende una tematica non nuova, che ha avuto alterne fortune nel dibattito pubblico: la fine del fascismo, fenomeno storico, ha portato con sé la fine dell’antifascismo, in estrema sintesi.

Quello che si comprende bene, nelle pagine affastellate di questo libello, data l’iterazione del concetto, è appunto che dell’antifascismo oggi si può fare a meno, anzi si deve fare a meno, se si vuole lasciare definitivamente alle spalle un dopoguerra durato anche troppo a lungo. E come tutti coloro che ci spiegano da anni che l’antifascismo è morto, essendo defunto il fascismo, l’autore, che si pone come ideologo en historien (più che storico en idéologue), cerca di sconnettere il comunismo dalla lotta di liberazione nazionale, arrivando a scrivere, nella pagina finale, una frase come questa, che sembra tratta dal più banale dei centoni del pensiero mainstream: “la tradizione comunista non può vantare nessuna superiorità morale [nell’ambito dell’antifascismo], non avendo fatto neanche oggi tutti i conti con il totalitarismo bolscevico da cui deriva” (p. 167). Una frase che personalmente giudico inaccettabile sul piano della verità storica e sbagliata su quello culturale: ma come si può tirare in ballo il “totalitarismo bolscevico” (!) per sminuire il valore del contributo del Partito comunista italiano alla lotta di liberazione? Come si può (fingere di) ignorarne, o anche soltanto sottovalutarne il peso assolutamente decisivo? E il nesso tra l’azione dei comunisti italiani contro il nazifascismo e il “totalitarismo bolscevico”, quale sarebbe?!

De Bernardi, che bersaglia Luigi Longo, primo costruttore del “mito” di un Pci anima della Resistenza, e, insieme con altri, del parallelo “mito” di una Resistenza come esito di un lungo processo antifascista, mentre a detta del nostro storico, la lotta armata del ’43-45 fu “un moto improvviso e imprevisto” (p. 110); De Bernardi che irride a Bella ciao e che nega l’antifascismo come spazio della sinistra, e come uno dei suoi fondamenti-chiave; De Bernardi che si scaglia contro la “guerra sulla memoria”; soprattutto, De Bernardi che nega qualsiasi pericolo fascista (“non inventiamo un nemico che non c’è” , p. 166), e invita ad abbandonare l’uso stesso della parola fascismo come un i
nutile rimasuglio di un passato ormai archiviato per sempre…; questo De Bernardi (o era un altro?) non provava imbarazzo nel ricoprire la carica di vicepresidente di un Istituto che dei valori della Resistenza è il custode, e di ambire persino alla sua presidenza? Ora che non riveste più quella carica in fondo dovrebbe sentirsi sollevato. E anche noi.

Alberto De Bernardi, Fascismo e antifascismo. Storia, memoria e culture politiche, Donzelli, Roma 2018
(27 dicembre 2018)




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