‘Apostasy Day’: il libero pensiero è in pericolo anche in Europa?

Monica Lanfranco

Una A scarlatta dipinta sul palmo della mano da mostrare sui social: così lo scorso 22 agosto segnato a livello globale dalla pandemia del Covid 19 il mondo laico ha voluto celebrare l’Apostasy Day, la giornata internazionale che ricorda al mondo che nel pianeta ci sono paesi dove c’è il carcere, o la pena di morte, per l’accusa di apostasia.

Maryam Namazie, animatrice e attivista dell’International coalition of ex-Muslim organisations ricorda da decenni che abbandonare la religione islamica può costare una condanna a morte in Afghanistan, Iran, Malesia, Maldive, Mauritania, Qatar, Arabia Saudita (dove fare professione di ateismo equivale all’accusa di terrorismo), Somalia, Yemen e Pakistan.

Ma in questo 22 agosto 2020, nel quale le Nazioni Unite condannano le vittime di violenza su base religiosa, va ricordato che anche in alcuni stati del nord America e dell’Europa ci sono persone che, rinunciando al credo religioso ortodosso, cristiano e indù rischiano accuse, violenze e persecuzioni da parte di gruppi fondamentalisti delle rispettive fedi.

Così anche quest’anno il mondo dell’attivismo laico ha lanciato una petizione per chiedere la fine della criminalizzazione dell’ateismo e dell’apostasia nei paesi sotto la legge islamica, per l’affermazione della libertà di pensiero e di opinione secondo gli articoli 18 e 19 della Dichiarazione Universale dei diritti umani.

Ma i rischi per l’esercizio della libertà di pensiero e di critica alle religioni non esistono solo lontano da noi: pochi giorni prima della ricorrenza dell’Apostasy Day dalle colonne di Revue des deux mondes Fatiha Agag-Boudjahlat, docente e cofondatrice del movimento Viv(r)e la République e autrice del libro che tre anni fa ha fatto molto discutere gli ambienti laici e femministi Le Grand détournement. Féminisme, tolérance, culture, racisme ha lanciato un allarme sullo stato di salute della laicità in Francia, affermando che ci sono molti segnali secondo i quali è in gioco la libertà d’opinione.

Nel suo jaccuse la studiosa ricorda che la strage di Charlie Hebdo, la rivista satirica vittima degli attentati islamisti del 7 gennaio 2015, e il caso di Mila, la studentessa francese che dall’inizio del 2020 vive sotto scorta perché minacciata di morte dopo aver pubblicato un video nel quale critica l’Islam “sono momenti cruciali della nostra storia che illustrano due pericoli a cui non siamo sfuggiti. Due rotture di paradigma nella nostra concezione e nella nostra pratica della libertà d’espressione. Con una ministra della Giustizia, guardiana delle nostre libertà, che deve ripensarci più di una volta per convenire che non esiste il reato di blasfemia nel diritto francese. Lei che aveva osato dire che ‘gli insulti violavano la libertà di coscienza’. O deboli credenti! O fragile fede che lo stato e i media devono proteggere. Le convinzioni religiose o politiche, le battaglie militanti e le idee non sono più considerate come il frutto di una riflessione e di una decisione personale, ma come una vocazione, un prolungamento dell’identità epidermica ed etnica della persona. Deridere, criticare o mettere in discussione queste idee viene percepito come un’offesa, un’aggressione contro la persona stessa”.

Fatiha Agag-Boudjahlat cita nell’articolo gli studi dell’etnologa Jeanne Favret-Saada, che spiega come la blasfemia, spesso invocata per punire la critica alle religioni “punta a instaurare, attraverso il pensiero e l’azione, una sfera di divieti. Gli offesi pretendono di fissare i limiti di ciò che sono pronti ad accettare, affermando che si tratta di limiti del rispetto umano, facendo della censura e di un reato religioso l’acme dei diritti umani. La Favret-Saada analizza anche il caso dei Versetti satanici di Salman Rushdie, o la vicenda delle caricature danesi di Maometto. E fa emergere caratteristiche comuni, tra cui l’applicazione impropria dei diritti umani per giustificare una restrizione della libertà d’espressione.

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È la stessa dinamica in atto – sostiene Agag-Boudjahlat – verificatasi dopo l’assassinio dei giornalisti di Charlie Hebdo e dell’affaire Mila. Non ci aspettavamo che alcuni politici e alcune associazioni mostrassero una tale deferenza nel difendere un culto di più di un miliardo di fedeli che si sente maltrattato e ferito da determinate parole al punto da essere obbligato a rispondere con minacce e sangue. Al massimo abbiamo sentito un ‘sì, ma’, con il secondo termine ad annullare il primo.

Agag-Boudjahlat cita anche Wassyla Tamzali, scrittrice e femminista algerina che si domanda, a proposito della vicenda di Mila: “Come, e dove, possiamo trovare il diritto di essere uomini e donne libere se non nella resistenza alla nostra cultura, alle nostre tradizioni religiose quando queste sono contrarie a codesti principi? A cosa loro stessi hanno strappato questi diritti, se non alle loro chiese, alla loro religione, alla loro cultura, alle loro tradizioni”?

Nel ‘sì, ma’ per Charlie e in quello per Mila il ‘ma’ annulla il sì, conclude Agag-Boudjahlat. “Il no assoluto a Mila è la deferenza nei confronti di militanti religiosi che incoraggiano soltanto il fanatismo. Bisogna mettere fine a questo statuto di eccezionalità riservato a una religione. Bisogna mettere fine alla deferenza che prova ai musulmani che sono effettivamente diversi, e che ciò è il segno della superiorità delle loro convinzioni.

#JesuisCharlie e #JesuisMila rappresentano asilo e riparo al fanatismo che uccide il libero pensiero. Il ‘sì, ma’ è diritto a uccidere dissimulato”.

(24 agosto 2020)




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