Appello ai laici: alziamo la voce!

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La società cambia ma la politica sembra non recepire. Di fronte alla sempre maggiore pluralità della nostra società, si tende a replicare il modello classico del concordato fra Chiesa e Stato, moltiplicando la separazione fra cittadini. In Germania in particolare, la voce delle Chiese è ancora politicamente molto rilevante, quella dei laici pressoché inesistente. Helmut Ortner, scrittore e curatore del volume “Exit. Perché abbiamo bisogno di meno religione”, spiega perché è ora di farsi sentire.

Helmut Ortner in conversazione con Bernd Leukert, da faustkultur.de

È appena uscito in Germania “Exit. Perché abbiamo bisogno di meno religione”: un libro che lei ha curato e che raccoglie diverse voci laiche. È possibile in Germania realizzare uno Stato laico?

Alla luce della nostra storia, sono piuttosto scettico. Il dominio delle Chiese, delle grandi Chiese – e intendo quella evangelica e quella cattolica – si fonda storicamente su una incredibile vicinanza allo Stato. Durante la Repubblica di Weimer si fece un tentativo di separazione, ponendo la questione della neutralità dello Stato. Purtroppo i padri e le poche madri costituenti (solo quattro!) non accolsero alcune parti decisive della legislazione di Weimer. E quelle che sono state accolte, sono rimaste fino a oggi lettera morta.

Il Concordato – in base al quale lo Stato spende per le Chiese più di mezzo miliardo di euro all’anno, al netto di altri elementi, come le entrate delle Kirchensteuer[1] e altre sovvenzioni e privilegi – non è stato abolito, nonostante stando alla formulazione legislativa avrebbe potuto esserlo. Io penso che, anche se, soprattutto in Germania, ci troviamo sostanzialmente di fronte a quello che io chiamo “cristianesimo folcloristico”, la maggior parte delle persone continua comunque a mantenere un tenace, anche se confuso, legame con la propria religione e che sarebbe dunque turbata dal fatto che lo Stato rinunci a Dio. Tutto questo nonostante sempre più persone abbandonino la Chiesa. Ma il punto è: con la laicità non si toglie Dio ai credenti, ma si separa Chiesa e Stato. L’idea della laicità è: la Chiesa non deve immischiarsi nelle decisioni politiche e nel dibattito pubblico nessuno deve richiamarsi a qualcosa di superiore, per esempio quando davanti a un giudice o nell’assumere un ministero si giura sulla Bibbia. La formula divina: “Che Dio mi aiuti” in occasione dei giuramenti dei ministri – la maggior parte giurano su Dio – come anche la formula standard usata nei tribunali indicano che c’è una sorta di Super Io, un’istanza morale che si erge su tutto ciò che è di questo mondo. Ed è un elemento che ha ancora una grande influenza e che dimostra che la separazione fra Chiesa e Stato, il precetto della neutralità, non ha alcuna presa.

La cosa interessante è nessun partito porta tale questione nel dibattito politico. E se dalla destra, dai conservatori, c’è da aspettarselo, sorprende che neanche a sinistra – dai socialdemocratici ai Verdi – se ne parli. A partire dalle lezioni confessionali nelle scuole e dai crocefissi nei tribunali. Ma una democrazia, uno Stato di diritto – e qui sono un patriota costituzionale – non può che essere senza Dio, una precondizione indispensabile per la possibilità stessa della libertà di religione. Altrimenti siamo uno Stato confessionale.

In altre parole, io penso – ed è un punto centrale – che oggi lo Stato di diritto tuteli i credenti ma non la fede. E non è una questione accademica, bensì entra nel merito della politica. Se si prende sul serio questo problema, ne discende che una coerente separazione fra Stato e Chiesa è la precondizione di una democrazia. Ma ci sono forti interdipendenze, e anche una sorta di complicità, sia politica sia culturale, che lo impedisce. È tutto molto deludente.

Siamo ancora impregnati di precetti religiosi: la domenica si suonano le campane, abbiamo una miriade di festività religiose, il divieto di danzare il venerdì santo e altre analoghe sciocchezze restrittive. Alla radio in specifiche giornate si può mandare solo musica classica! Tutto ciò è dal mio punto di vista antidemocratico, eppure viene tollerato. C’è un mix di dipendenza, abitudine e tradizione che ha permesso che questo accadesse. Riempire di contenuti il concetto di “laicità” non è all’ordine del giorno nell’agenda politica di nessun partito, neanche di quelli che non provengono dalla tradizione cristiana e conservatrice, dai quali io me lo aspetterei.

I liberali inizialmente si sono presentati come anticlericali.

Esattamente. E dai liberali, così come dai socialdemocratici, io mi aspetterei un lavoro politico fondamentalmente anticlericale. Cosa che non vedo affatto. In Spagna e in Italia, così come anche in Sudamerica e nell’Europa dell’Est, c’è ancora una diffusa fede popolare, mista a folklore. In Germania abbiamo più una fede-evento, come si vede ai matrimoni. Tutto ciò non ha niente a che fare con la sostanza, con la fede. E anche chi abbandona la Chiesa, rimane comunque parte della comunità. Mi ricordano quei tifosi che di calcio non capiscono nulla, che non saprebbero spiegare neanche il fuorigioco, ma urlano “Germania” quando la palla rotola.

È possibile che a impedire un cambiamento della nostra democrazia nel senso da lei auspicato giochi un ruolo decisivo il fatto che molte istituzioni sociali siano gestite da enti ecclesiastici?

Certamente. Sostanzialmente tutte le istituzioni sociali – dalla Caritas alle diaconie – sono anche importanti datori di lavoro e coprono quasi integralmente l’ambito del sociale, dagli asili nido alle case di riposo per anziani.

Ma sempre con il sostegno dello Stato.

Esatto, sono sovvenzionate quasi al 100 per cento. E teniamo anche conto che hanno un loro diritto del lavoro specifico, che definisce gli standard per i lavoratori: una cosa estremamente problematica. Questo spiega anche l’alleanza, fondata storicamente, degli ultimi decenni. Queste istituzioni ecclesiastiche hanno ottenuto – o occupato, a seconda di come la si voglia guardare – compiti sociali che dovrebbero competere allo Stato. Il che dà loro una enorme forza e capacità di influenzare i processi di cambiamento e la discussione sulla laicità, consentendo loro di innalzare vere e proprie barriere. Nella vita quotidiana, se lei ha bisogno di un asilo per suo figlio e non vive in grandi città, dove c’è anche qualche asilo comunale, non le rimane praticamente altra scelta che una struttura cattolica o protestante. Stessa cosa per le case di riposo e persino per gli ospedali.

Si tratta di una struttura enorme, di cui la maggior parte dei politici va addirittura fiero! Non ci si rende conto che questo crea una permanente e inaccettabile capacità di influenza politica. Pensiamo a cosa accade dentro queste cliniche quando si tratta, per esempio, del suicidio assistito, della questione di una morte autodeterminata. La Chiesa continua ad avere voce in capitolo in tutti gli ambiti sociali e politici e in tutte le questioni culturali. Una presenza dominante che io trovo discutibile. Dico di più: trovo questa situazione non solo contraria alla democrazia ma anche un ostacolo alla democrazia stessa.

A differenza della Franc
ia o dell’Italia, in Germania lo Stato ha il dover di sostenere economicamente le Chiese.

Esatto, e con il sistema dei Concordati, tutt’oggi in vigore, si è infilato in una serie di dipendenze contrattuali. Ancora oggi, e mi pare che non sia solo un elemento di sfondo, siamo l’Occidente cristiano, Stato e Chiesa rappresentano un’alleanza indissolubile sia storicamente sia nell’attualità di oggi. La Chiesa viene citata costantemente nel dibattito politico ogni volta che la discussione verte su cosa ha a che fare la religione con la nostra giustizia, con la nostra morale, con le nostre leggi. E nessuno mette in discussione questo ruolo. Si tratta di un’alleanza che si è addirittura rafforzata nel tempo, creando legami e dipendenze oggi molto difficili da sciogliere. Non basta infatti discuterne sul piano della società civile o sui giornali: è una questione che entra fin dentro il parlamento, permeando le strutture politiche.

Prendiamo l’insegnamento della religione a scuola. La nostra società è cambiata, è diventata più plurale. Non ci sono più solo protestanti e cattolici[2], ma anche musulmani, ebrei e persino qualche ateo. E allora che facciamo? Moltiplichiamo gli insegnamenti confessionali dividendo i bambini in 4-5 classi? Non sarebbe più intelligente tenere invece tutti i bambini – cristiani, musulmani, buddisti, atei che siano – nella stessa stanza e invece che le confessioni religiose insegnare Etica? Una lezione nella quale naturalmente si parlerebbe anche delle diverse religioni, scambiandosi pure le reciproche esperienze. Forse così impareremmo anche a rispettarci.

E invece nella misura in cui si sostiene la separazione ci si lega a una immagine di società che in un certo senso si allontana da una società che anche sul piano culturale è sempre più plurale. È come se fossimo rimasti agli anni Cinquanta/Sessanta, con due grandi Chiese che dominavano la scena. Ancora oggi ogni sabato – in alcune regioni forse non c’è più ma in molte sì – in tv va in onda un format che è una sorta di monumento: la “Parola per la domenica”, dove prima dei programmi sportivi del sabato un pastore evangelico e un prete cattolico si alternano prendendo parola per 4 minuti. Una tradizione prevista dalle leggi sulla tv e che rappresenta molto bene il dilemma di fronte a cui ci troviamo.

Come possiamo definire la democrazia?

La democrazia non è qualcosa di statico. Non è neanche una strada a senso unico né un negozio self service dove ognuno prende quel che vuole. La democrazia è un discorso che dura nel tempo, una sorta di costante gara fra opinioni. Alla fine dobbiamo tutti arrivare a un compromesso, che è l’elemento affascinante ma anche difficile della democrazia. Nelle dittature naturalmente tutto è più veloce e facile.

Certo, dobbiamo renderci conto che la democrazia, che oggi rende possibili processi di emancipazione che non possono essere fermati, con la globalizzazione porta anche problemi nuovi nei contesti nazionali, con convinzioni culturali e morali che possono collidere nello spazio pubblico, rendendo più ardua la definizione di un nucleo di consenso per la convivenza. In democrazia bisogna avere una guida, che non può essere né la Bibbia né il Corano, ma solo la Costituzione. Su questo dobbiamo trovare il consenso, come per il Codice della strada. Ciascuno può avere una Porsche o una Fiat o usare la bicicletta, l’importante è che condividiamo le regole del traffico: col rosso ci si ferma, con il verde si passa.

Analogamente funziona la democrazia, che ha le sue lunghe e difficili procedure parlamentari. Si può discutere sulle leggi elettorali, sulla durata della legislatura. In Germania poi noi abbiamo diversi livelli politici, dai comuni alle regioni fino al livello nazionale. Abbiamo il federalismo: saggio! Molti invidiano non solo la nostra Costituzione ma anche il nostro sistema federale. E abbiamo la società civile, che è molto importante. Una democrazia è tale solo se ha una società civile attiva, espressione di una democrazia viva. Non vorrei mai vivere in una società dove la mia opinione sia predominante. Sarebbe una forma di totalitarismo. La democrazia vive di scontri e discussioni.

E per tornare al nostro tema: su laicità e influsso delle Chiese dobbiamo discutere! In questa discussione gli atei dovrebbe alzare la voce e diventare più visibili nei partiti e nelle istituzioni. Al contrario sono silenziosi, e le posizioni laiche non trovano spazio nel dibattito pubblico. Anche nei media o nelle conferenze: ci sono sempre rappresentanti delle Chiese e delle diverse religioni, acrobati spirituali, ma mai un ateo. E quando c’è, le sue posizioni ne escono fuori male. Bisogna che diventiamo più coraggiosi, non aggressivi ma aperti, chiari ed esigenti. Bisogna cogliere ogni occasione – io cerco di farlo alla radio o in tv – per esprimere questa posizione, per far sentire la nostra voce, per dare degli stimoli. Finora questa posizione è quasi impercettibile. Ci sono alcune piccole realtà, come la Fondazione Giordano Bruno, che cercano di rafforzarla, ma nel contesto politico siamo praticamente invisibili.

NOTE

[1] Le Kirchensteuer sono le tasse che i cittadini tedeschi versano in automatico alla Chiesa di appartenenza, n.d.t.

[2] Che sono le due confessioni storicamente presenti nelle scuole pubbliche tedesche, n.d.r.

(traduzione di Cinzia Sciuto)

(17 settembre 2019)


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