Appendino: “Stanziare risorse è inutile se non si abolisce il patto di stabilità”
Daniele Nalbone
Lo stato d’emergenza ha compresso lo spazio decisionale: tutti i poteri sono nelle mani del governo, dei commissari straordinari e dei presidenti di regione. Così i comuni, primi enti di prossimità, si ritrovano senza liquidità e i sindaci sono stati, di fatto, esautorati. La loro funzione politica e di governance è stata annullata. In questa serie di interviste su MicroMega sei sindaci ragionano sul futuro delle amministrazioni locali e del ruolo dei comuni. |
Penso che abbiamo dato dimostrazione di cosa significhi avere senso di responsabilità e dello stato. Abbiamo rinunciato al nostro potere di ordinanza perché in un momento di emergenza è importante avere un’unica voce, messaggi chiari, una comunicazione semplice. Dobbiamo però fare una distinzione tra le varie fasi. Nella prima, quella dell’emergenza, ci siamo fatti correttamente da parte. Ci siamo concentrati, per esempio, a spiegare e ad applicare il contenuto dei vari Dpcm approvati spesso nella notte e in vigore dalla mattina successiva. Abbiamo cercato di essere il braccio operativo dello stato. Ora, però, la situazione è cambiata: siamo in un’altra fase che richiede un nostro protagonismo. I sindaci sono il primo terminale del paese, le cosiddette «sentinelle»: noi percepiamo e recepiamo prima le necessità dei cittadini rispetto allo stato centrale. Il secondo motivo: le sfide che abbiamo davanti si giocano nelle città. È soprattutto qui che dovremo convivere con il virus e riuscirci o meno passa dalla capacità delle aree metropolitane di ridisegnarsi. Infine, c’è una questione economica: se non ripartono i comuni non riparte l’Italia.
In queste settimane avete lavorato per fare pressione sul governo, ma la maggior parte degli organi di informazione ha raccontato questi confronti come se al centro ci fosse solo una richiesta di soldi.
Abbiamo chiaramente chiesto risorse per evitare il dissesto finanziario, perché questo è il rischio che stiamo correndo: entro il 31 luglio dobbiamo garantire l’equilibrio di bilancio. In gioco ci sono servizi essenziali per la vita delle persone. Ma le risorse sono solo uno degli elementi della discussione che ha al centro il ruolo dei sindaci. Io, personalmente, sono intervenuta nell’ultimo incontro chiedendo al premier Conte di essere messa nelle condizioni di poter «accompagnare» il lavoro del governo. Abbiamo davanti a noi sfide difficilissime: quella sanitaria, quella economica e quella sociale. Chiediamo, quindi, poteri – non straordinari, sia chiaro – perché, per fare un esempio, Torino ha dei soldi a bilancio per le infrastrutture che possono essere immessi immediatamente nel circuito economico, ma abbiamo bisogno di procedure più snelle. Con le giuste risorse e i giusti poteri – un altro esempio – posso modificare il codice della strada per poter ridisegnare la mobilità sostenibile. Noi siamo pronti a raccogliere queste sfide. Il problema è che non abbiamo gli strumenti per farlo.
Nell’ intervista a MicroMega il sindaco di Firenze, Dario Nardella, ha fatto una sorta di mea culpa: da forte sostenitore dell’autonomismo regionale ora ammette il fallimento di quel sistema. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, nell’intervista che pubblicheremo il 10 giugno – faccio un piccolo spoiler – denuncia come il patto di stabilità, pur sospeso a livello europeo, abbia ancora i suoi effetti sui comuni, imbrigliati da quelle norme. Lei come si pone su queste due questioni?
Parto dalla seconda questione, quella del patto di stabilità. Io ho ereditato un bilancio con un disavanzo strutturale di circa 60 milioni di euro l’anno su un totale di 1,3 miliardi. La Corte dei conti mi disse che dovevo scegliere tra andare in predissesto o approntare un piano di rientro. Io ho scelto la seconda strada. Ho fatto un percorso di risanamento che mi ha portato nel 2019, dopo ben 25 anni che non accadeva, ad approvare il bilancio di previsione a dicembre. Faccio questa premessa perché oggi, lo dico io che mi sono presa la responsabilità politica di questo percorso, non è immaginabile chiedere ai sindaci di risanare il disavanzo che deriva dal Covid: è una cosa immorale. Dobbiamo chiedere con forza allo stato, in questo momento storico, di dar vita a politiche espansive: la stagione dei tagli è finita. Oggi il Covid ha spazzato via la nostra politica di quattro anni di risanamento dei conti. O il motore dell’economia sarà «pubblico», con risorse da inserire nel sistema in breve tempo, o si genererà ulteriore recessione. Ecco, il tema del patto di stabilità si inserisce in questo meccanismo. Dobbiamo essere messi nelle condizioni di fare politiche economiche espansive: tradotto, chiediamo risorse e strumenti. Una cosa senza l’altra non serve. Faccio un esempio: a Torino abbiamo il progetto della seconda linea metropolitana che vale quattro miliardi ed è finanziato per un miliardo. Voglio poter mettere a sistema quelle risorse nel più breve tempo possibile. Per farlo, però, è necessario rivedere l’intero sistema degli appalti.
E per quanto riguarda la questione delle autonomie regionali?
Questa emergenza ha messo a nudo la fragilità del sistema delle autonomie regionali soprattutto per quanto riguarda la sanità. Inoltre, mai come ora è necessario riconoscere maggiormente il ruolo delle città metropolitane sia dal punto di vista dello sviluppo economico che delle politiche ambientali. Serve però terminare la riforma iniziata nel 2014 e rimasta a metà. Che sia poi necessario agire subito sulla sanità è sotto gli occhi di tutti.
C’è stato in questi mesi anche un altro problema: la necessità di porsi nel modo corretto nei confronti dei cittadini. Faccio un esempio: l’Anci è stata, di fatto, una voce sola. Non ricordo scontri tra sindaci nella fase dell’emergenza. La stessa cosa non può certo dirsi per i governatori. C’è stata a suo avviso una differenza di gestione tra sindaci e governatori?
I sindaci hanno dato esempio di cosa significhi mettere da parte il proprio protagonismo. Attenzione: questo non significa che internamente non ci siamo confrontati, la dialettica c’è stata eccome. In un momento di emergenza però i cittadini hanno bisogno di messaggi semplici, chiari e di certo non vogliono vedere istituzioni che litigano tra di loro, trasformando anche il momento della crisi sanitaria in una polemica politica. Noi – come sindaci – siamo stati tutti, e sottolineo tutti, molto corretti e siamo riusciti a dare un’immagine di unità. La stessa cosa non posso certo dirla per le regioni: ci sono state voci contrastanti tra di loro e contrastanti con il governo, cosa che ha indebolito tutti in un momento di emergenza.
Settecento ordinanze regionali in tre mesi è qualcosa di assurdo, non trova?
Per noi sindaci interpretare Dpcm e ordinanze regionali dall’oggi al domani, con i cittadini che chiedevano chiarezza, è stato molto complicato. Abbiamo lavorato senza fare polemiche ma, devo dire, questo modo di agire da parte delle regioni non ha aiutato, generando solo confusione. Io stessa facevo fatica a comprendere il contenuto di Dpcm e ordinanze. Questo continuo cambio di regime ha reso complicata la comunicazione con i cittadini. Non a caso noi abbiamo rinunciato al potere di emanare ordinanze.
Prima ha parlato della necessità, in una situazione di emergenza, di pochi messaggi, semplici e chiari. È stata così in questa fase?
No. Nella fase del lockdown, la più complicata dal punto di vista dei sacrifici chiesti alle persone, c’è stato un messaggio univoco: restate a casa. La fase della ripresa è stata più complicata: man mano che si allentavano i divieti sono spuntate regole diverse per ogni territorio. Questo ha reso tutto molto più complicato.
Se la fase acuta della crisi sanitaria sembra essere alle spalle, quella della crisi economica e sociale &egrav
e; appena iniziata. Qual è la situazione di Torino?
Torino è la città del Nord che forse ha sofferto maggiormente la crisi dell’industria di dieci anni. Siamo tra le prime città del Nord per numero di richieste del reddito di cittadinanza e i dati sulla disoccupazione giovanile sono spaventosi: il 40 per cento dei ragazzi tra i 18 e i 25 anni non studia e non cerca un lavoro. È una città che le cui sofferenze esistenti si sono acuite. Torino ha storicamente puntato su un’industria che vedeva nell’automotive e nell’aerospazio i motori trainanti, tuttavia, la crisi di questi settori, è nota a tutti. In questi anni di governo, poi, abbiamo cercato di fare del turismo uno dei punti cardine dell’economia torinese e i dati ci stavano dando ragione, con un aumento del 35 per cento delle presenze negli ultimi tre anni. Ora anche questo settore è in ginocchio. A fronte di questa situazione, sul breve e medio periodo c’è una sola soluzione: il welfare. Sul medio e lungo periodo ce ne sono altre che si chiamano investimenti, sviluppo e lavoro. Per ciò che riguarda il welfare nel periodo di emergenza, tramite la distribuzione dei cosiddetti «buoni spesa» siamo riusciti a mappare nuove forme di povertà che non conoscevamo, persone che nel 2019 avevano un reddito e che oggi non lo hanno. Se useremo strumenti vecchi, che guardano al reddito storico, non riusciremo ad affrontare la situazione. Serve un nuovo sistema incentrato sul welfare di comunità. Noi con i soldi arrivati dal governo abbiamo costruito «Torino solidale», un network tra associazioni, terzo settore, case di quartiere, che entrano in contatto «umano» con le varie esigenze.
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Il welfare di cui abbiamo bisogno deve essere decentrato, con una cabina di regia centrale che eroghi risorse, ma da applicare direttamente sui territori. Se non ridisegneremo il welfare sarà il caos. In questo scenario il reddito di cittadinanza ha dimostrato di essere insufficiente, il reddito di emergenza è invece transitorio, come il bonus Inps. Questi ultimi due strumenti hanno però un valore: ci stanno dando qualche settimana di tempo per approntare un nuovo welfare. Pensate, per esempio, a quanto sta accadendo sul fronte abitativo: la regione Piemonte non ha stanziato alcun sostegno aggiuntivo agli affitti e in queste settimane stanno emergendo nuovi casi di morosità. E altri ne emergeranno. Sulle case popolari siamo spaventosamente indietro: se non intercetteremo nel più breve tempo possibile le famiglie in difficoltà con gli affitti dovremo poi affrontare la questione delle morosità. Da lì all’emergenza abitativa il passo è brevissimo. Il messaggio è chiaro: non possiamo pensare di gestire questa situazione con gli stessi strumenti di prima, peraltro già insufficienti. C’è, poi, il tema degli investimenti, dello sviluppo e del lavoro su cui abbiamo puntato sin dal 2016. Abbiamo già citato la Metro 2. Ma, proprio parlando di automotive e aerospazio, a Mirafiori stanno sorgendo il Manufacturing e Competence Center, un vero e proprio progetto di rilancio industriale che mette al centro innovazione, impresa, ricerca e lavoro. Un progetto che vede una partecipazione corale, a partire dal Governo. Ecco, è facendo leva su questi temi che Torino potrà davvero ripartire. Ma dobbiamo farlo il prima possibile.
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