Appunti sul lockdown prossimo venturo
Luigi Cavallaro
C’è purtroppo da temere che provvedimenti appena varati dall’ultimo d.p.c.m. del Governo risultino ad un tempo inutili e dannosi. E non è che anche da parte nostra si voglia evocare lo spettro dello “stato d’eccezione” o celebrare l’ennesimo elogio tardivo dell’indisciplina: il timore sorge piuttosto per un banale problema di incoerenza tra mezzi e scopi.
Le cronache raccontano che, in molte parti d’Europa, anche di fronte a volumi di contagio più imponenti dei nostri, non si fa luogo a chiusure generalizzate di imprese e pubblici esercizi, ma si interviene in modo mirato su quei territori in cui gli indici di trasmissione del contagio appaiono fuori controllo rispetto alla specifica ricettività ospedaliera. E anche senza essere virologi di professione o economisti da Nobel si può comprendere che questa è l’unica strada per contenere i contagi senza pregiudicare l’economia: è indubitabile che una qualunque restrizione può essere insufficiente o dannosa a seconda del territorio in cui va applicata e che, ad esempio, tenere un ristorante aperto dove l’indice Rt è superiore a 2 e scarseggiano i posti letto in terapia intensiva è pericoloso per la salute pubblica, mentre chiuderlo dove è inferiore a 1 e gli ospedali sono vuoti è solo un danno economico e sociale.
Il problema è che non si può agire in modo selettivo se non si possiedono dati attendibili e una pubblica amministrazione che sappia processarli, leggerli ed elaborare le misure necessarie, assicurando poi che vengano rispettate da una popolazione che, già di suo, sia incline al rispetto delle regole. E invece noi, dopo decenni di anarcoliberismo, non soltanto non abbiamo più una macchina pubblica materialmente in grado di farlo, né a livello centrale né a livello locale, dove talora vediamo spadroneggiare personaggi che non sappiamo se più ridicoli o pericolosi; ma non abbiamo più nemmeno un corpo sociale sufficientemente dotato di solidale intelligenza, l’imperativo lacaniano di godere hic et inde essendosene impadronito insieme alle parole d’ordine più trite di un decennio definito “formidabile”: a cominciare dal famoso “vietato vietare” (che i francesi più correttamente traducono in “laissez faire”). Lo certifica oltre ogni ragionevole dubbio la patetica vicenda dell’app “Immuni”: scaricata solo da un’esigua minoranza di una popolazione tutt’altro che gelosa della propria privacy quando si tratta di esibire corpi e sentimenti sui social network, e d’altronde impossibilitata a funzionare perché – così apprendiamo dai giornali – chi dovrebbe farlo non carica né processa le informazioni necessarie per la tracciatura.
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È questo il brodo di coltura delle restrizioni erratiche e talora perfino contraddittorie dell’ultimo d.p.c.m.: perché chiudere un ristorante alle 18 e lasciarlo aperto prima non impedirà al virus di dilagare a Milano, mentre a Matera o a Racalmuto sarà solo un danno per il gestore e i suoi dipendenti. Senza dire che i ristoranti, così come le palestre, hanno avuto imposti obblighi di sanificazione e distanziamento tali da essere tra i posti dove più difficilmente può contrarsi il virus, mentre altrettanto non è dato sapere per migliaia e migliaia di altre imprese dell’operosa Padania, che resteranno aperte 24×7.
È possibile che l’unico vero scopo di queste misure sia di disincentivare la gente a uscire di casa, togliendogli le attrazioni dello sport, dell’apericena e del cicchetto: e specialmente i ragazzi, sulle cui gambe molto probabilmente corre la pandemia. Ma siccome i ragazzi continueranno a uscire, ed essendo figli della cultura che abbiamo costruito negli ultimi decenni anche ad infischiarsene di distanze e mascherine, c’è da temere che tra meno di due settimane registreremo l’impennata delle terapie intensive e poi dei morti. E allora, invocato a una voce, arriverà il vero lockdown, come a marzo scorso: perché in una società che esalta l’egoismo e l’ipocrisia e rifugge la responsabilità, la morte (nostra o dei nostri cari, beninteso) è l’unica cosa che fa ancora paura.
Benvenuti nel “regno della libertà”, vien fatto di concludere. E non c’è da esserne allegri, ché non è quello che Marx aveva auspicato alla fine del terzo libro del Capitale.
(27 ottobre 2020)
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