Argentina: attesa per il disegno di legge per legalizzare l’aborto

Francesca Capelli

, da alganews.it
Buenos Aires – Un otto marzo d’attesa, quello che a Buenos Aires ha radunato le donne davanti al Congreso, il Parlamento nazionale. Le militanti del Ni una menos (Non una di meno, il raggruppamento che lotta contro il femminicidio), le adolescenti con il fazzoletto verde della campagna per l’aborto legale, le trans e le lesbiche che combattono omofobia e travesticidio. Tutte in attesa del disegno di legge annunciato per i prossimi giorni dal presidente Alberto Fernández, con l’obiettivo di introdurre in Argentina l’aborto legale, considerato un reato dal 1921.
Sui contenuti del testo non si sa ancora nulla di certo, come il limite massimo di settimane per l’interruzione legale, o le modalità di accesso al servizio. Il ministro della Salute Ginés Gonzáles García, medico e paladino della depenalizzazione dell’aborto, si è dichiarato favorevole all’introduzione del diritto all’obiezione di coscienza per medici e sanitari. Una misura da un certo punto di vista necessaria in nome del gradualismo, per evitare che posizioni estreme possano mettere a rischio l’approvazione della legge, ma che rischia di paralizzare il servizio, almeno in certe zone del paese, proprio come avviene in Italia.
Vero è che, proprio in Italia, l’obiezione di coscienza avrebbe dovuto essere un provvedimento temporaneo della legge 194, preso per quei medici entrati in servizio nel sistema sanitario pubblico prima dell’approvazione della legge. Avrebbe dovuto essere superato gradualmente con l’ingresso alla professione di medici giovani. Ginecologi consapevoli che, scegliendo la loro specializzazione, non avrebbero potuto sottrarsi all’obbligo di praticare interruzioni volontarie di gravidanza.
Già nel 2018, in Argentina, un progetto di legge aveva superato la votazione alla Camera dei Deputati, ma non aveva trovato la maggioranza al Senato. I voti furono totalmente trasversali rispetto ai partiti.
È la fotografia di un paese complesso, che ha introdotto – per primo in America Latina – il matrimonio omosessuale già nel 2010, dopo aver riconosciuto, alcuni anni prima, le unioni civili. Un paese dove dal 2013 vige la possibilità di dichiararsi “non binario” (cioè né uomo né donna) all’anagrafe o cambiare sesso con un procedimento amministrativo (sempre una dichiarazione all’anagrafe). Ma che sull’aborto non riesce a compiere un passo in avanti. Tanto da far venire il sospetto che le resistenze derivino dal business economico delle cliniche private che già garantiscono a chi può permetterselo sicurezza, velocità e discrezione.
In realtà, in Argentina esiste già la possibilità di abortire legalmente, in caso di stupro (senza bisogno di una denuncia, basta una dichiarazione della donna) o pericolo per la salute della donna. Ma quando questo accade, la notizia trapela (in barba ai più elementari diritti della donna, prima di tutto quello alla privacy) e qualche politico, primario o privato cittadino presenta un ricorso alla giustizia. Così i tempi si allungano, scadono o addirittura il giudice vieta l’intervento. Con i pretesti più vari, a cominciare da un’interpretazione restrittiva del diritto alla salute della donna, intesa solo in senso fisico e non psicologico e sociale.
I risultati di questa situazione sono spesso tragici, come testimoniano le vicende di bambine stuprate (spesso da uomini legati alla famiglia) e costrette a portare avanti gravidanze che finiscono con aborti spontanei e interventi chirurgici di estrema urgenza.
Se la legge passerà, l’Argentina sarà il primo grande stato latinamericano a legalizzare l’aborto, attualmente permesso a Cuba, in Uruguay e a Città del Messico (limitatamente al Districto Federal).
Il movimento femminista non si stanca di spiegare che la legalizzazione dell’aborto non è una scelta morale, ma di salute pubblica. L’opzione non è “aborto sì” o “aborto no”, ma “aborto legale” o “clandestino”. La legge serve a evitare le morti delle donne povere, dato che quelle che possono permetterselo ricorrono a cliniche private. Ancora una volta, insomma, le disuguaglianze di genere si intersecano con le disuguaglianze di classe. Non è raro che donne di classi popolari che si presentano all’ospedale con un’emorragia in corso per un aborto spontaneo e vengano accusate di esserselo provocato volontariamente, con tanto di denuncia e processo. Eclatante, da questo punto di vista, la legislazione del Salvador, Nicaragua e República Dominicana, dove abortire è punito con il carcere fino a 30 anni, dato che per questi stati si tratta di un omicidio a tutti gli effetti, anche in caso di violenza o se la vita dalla donna è in pericolo.
(9 marzo 2020)




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