Argentina-Fmi: è lotta dura per rinegoziare il debito ed evitare il default

Francesca Capelli*

Buenos Aires – Una guerra di posizione. Così, a pochi giorni dall’inizio, si presenta la trattativa tra Fmi e governo argentino sul prestito contratto nel 2018 dal precedente governo: 43mila milioni di dollari più gli interessi, impagabili, allo stato dei fatti.
Da una parte il Fondo – a cui si somma un Donald Trump apertamente ostile al governo di Alberto Fernandez – intenzionato a batter cassa senza concessioni. Sull’altro fronte il governo, che insiste sull’illegalità di quel prestito. Un’illegalità che riguarda entrambi contraenti: l’allora capo dello stato Mauricio Macri, che aveva firmato l’accordo senza passare dall’approvazione parlamentare; e la presidente del Fmi Christine Lagarde, che aveva concesso il credito pur sapendo che il paese non sarebbe mai stato in grado di restituirlo. Ma in quel momento, al Fmi interessava evitare il default a un anno dalle elezioni e consentire a Mauricio Macri di arrivare all’appuntamento con le urne con una sufficiente liquidità nella speranza – poi disattesa – di una rielezione. La situazione è seria. Se non si arriva a un accordo entro il 31 marzo, l’Argentina rischia seriamente un nuovo default.

Il ministro dell’Economia Martín Guzmán è stato chiaro. L’intenzione è pagare, ma subordinando le scadenze e gli impegni alla crescita economica del paese. Nessun altro sforzo fiscale potrà essere chiesto a un paese che, dopo 4 anni di macrismo, vede il 35-40 per cento dei suoi cittadini (a seconda dei criteri di calcolo) sotto il livello di povertà, con un tasso di disoccupazione che, alla fine del 2019, aveva superato il 10 per cento, il livello più alto dal 2006. La logica, molto keynesiana, di Guzmán è che all’aumentare del Pil, grazie a politiche di sviluppo, aumenterebbe anche il gettito fiscale, quindi la possibilità di pagare il debito senza infierire sui cittadini allo stremo.

I dati parlano chiaro. Il 9 dicembre 2015, ultimo giorno di governo di Cristina Kirchner, il debito pubblico era pari al 52,6 per cento del Pil e, di questo, il 9 per cento era in mano a banche e fondi di investimento, il 6 per cento a organismi di credito internazionali, come la Banca Mondiale. Il resto era tutto interno.

Nei quattro anni successivi, la logica si inverte: al 30 dicembre 2019, il debito è pari a 323mila 177 milioni di dollari, ossia il 91,7 per cento del Pil (stimato a 352mila 300 milioni di dollari). Nel frattempo, il debito contratto con gli organismi internazionali di credito è passato dal 6 al 20 per cento del totale, proprio a causa dell’accordo del 2018 con il FMI, al quale, dal 2006, l’Argentina non doveva un dollaro. Era stato Nestor Kirchner a voler estinguere il debito residuo anche prima di quanto richiesto dal Fondo stesso, proprio per non essere condizionato nelle scelte di politica economica del suo governo.

Il Fmi, tuttavia, non è l’unica controparte del governo di Fernandez. A giocargli contro ci sono anche i fondi di investimento, che detengono attualmente un credito di 66mila milioni di dollari circa e che pretendono il pagamento prima possibile. Non solo. Oltre al debito dello stato nazionale, c’è quello delle provincie, anch’esse a rischio di default. In tutto questo, Mauricio Macri nei giorni scorsi ha accusato gli ex alleati di governo di essere i responsabili dell’aumento esponenziale del debito e di averlo quasi obbligato a chiedere prestiti. E il giorno stesso dell’arrivo dei negoziatori del Fmi, un gruppo di parlamentari di opposizione ha accusato il governo di Cristina Kirchner di essere responsabile dell’indebitamento dello stato, contro ogni dato fattuale e verità storica. “Il debito estero argentino è una questione strategica”, ha scritto Horacio Rovelli, docente di Flacso (Facultad latinoamericana de Ciencias Sociales, una rete universitaria creata dall’Unesco, www.flacso.org.ar) e ricercatore nel campo delle politiche pubbliche. “È una lotta democratica che coinvolge tutti, in contrasto con posizioni come quella di Cambiemos – il partito di Macri – che non si assumono la responsabilità del disastro da loro provocato”.

Intanto in Argentina l’aria è cambiata e molte famiglie, se non altro, hanno ricominciato a respirare. Già nei primi due mesi di governo di Alberto Fernández, si è assistito al ribasso del prezzo dei farmaci per le malattie croniche e per gli anziani, all’aumento delle pensioni minime, al congelamento per sei mesi delle tariffe di acqua, luce e gas, non più indicizzate al dollaro. Nel frattempo, sono scesi i tassi di interesse.

In tutto questo, l’incognita resta la classe medio-bassa, che rischia di trasformarsi nella grande insoddisfatta del governo di Alberto Fernandez. Per le pensioni di media entità, anch’esse danneggiate dall’inflazione al 40 per cento dell’ultimo anno, gli aumenti accordati sono inferiori, rispetto alle pensioni minime. Con il rischio che questi cittadini si sentano il “bancomat” usato dal governo per finanziare le politiche sociali, nell’incapacità o nella non volontà di colpire il grande capitale o i proprietari terrieri esportatori di soia. E il paradosso di ritrovarsi, tra quattro anni, un paese con i conti a posto retto da un governo considerato populista che invece avrà scontentato i settori medio-bassi che non lo voteranno una seconda volta.
* da alganews.it

(17 febbraio 2020)





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