Armenia, Azerbaigian e il jihadismo globale legalizzato

Davide Grasso

Quando le forze speciali di Erdogan mi trattennero nel 2015 a Farqin (Silvan), nelle regioni curde della Turchia sud-orientale, dissi, una volta interrogato sulle ragioni della mia presenza, che trovavo affascinante visitare la capitale dell’antico Impero armeno (Farqin si chiamava un tempo Tigranakert). L’espressione del mio interlocutore si trasformò completamente. «Are you armenian?», chiese con uno sguardo trasformato e aggressivo. A un secolo esatto dal genocidio del 1915 un semplice riferimento all’eredità di quei luoghi era in grado di provocare reazioni imprevedibili. Cinque anni dopo, in occasione dell’attuale guerra tra Armenia e Azerbaigian, Erdogan reitera le minacce a ciò che oggi resta dell’Armenia storica: un piccolo stato di tre milioni di persone, incassato tra vicini ostili accomunati dalla predominanza della religione musulmana: la Georgia a nord, la Turchia a ovest e l’Azerbaigian a est che, da solo, ha oltre tre volte la popolazione dell’Armenia.

L’affermazione di Erdogan, secondo cui la Turchia è pronta a scendere in campo «con qualsiasi mezzo» contro l’Armenia, non suona in Medio oriente molto diversa di una dichiarazione tedesca che, in Europa, promettesse guerra agli ebrei. Nel 1939, alla vigilia dell’invasione della Polonia, Hitler chiese ai suoi ufficiali, per rassicurarli su ciò che stava per accadere: «Chi ricorda, oggi, il genocidio degli armeni?». La lotta armena per l’indipendenza dal sultanato aveva indotto il governo turco a vedere nei cristiani dell’impero (armeni ma anche assiri e aramei) la testa di ponte dell’avanzata zarista durante la Prima guerra mondiale. In oltre un milione furono sterminati a Istanbul o nel deserto siriano di Deir el-Zor con la complicità di altre popolazioni dell’Impero, arabi e soprattutto curdi, questi ultimi anche con i famigerati reparti Hamidiye fedeli al sultano (il dissidio turco-curdo era ancora a venire). Il crollo dei due imperi, tra smembramento coloniale ottomano e rivoluzione comunista in Russia, vide gli armeni e gli assiri superstiti, assieme a turcomanni, curdi, ceceni, ezidi e circassi precipitare in un caos inframmezzato, soprattutto nel crogiolo caucasico, da rivolte e dichiarazioni d’indipendenza cui mise fine, nel 1920, soltanto l’arrivo dell’Armata rossa. Ne nacquero le repubbliche socialiste, federate con Mosca, di Georgia, Armenia e Azerbaigian.

Il commissario sovietico alle nazionalità era allora il militante georgiano Josif Stalin, che decise di assegnare una parte dell’Armenia, il Nagorno-Karabach, all’Azerbaigian. C’è chi dice fosse per addolcire la Turchia (la lingua azera appartiene al ceppo turco), chi perché convinto che il comunismo potesse affermarsi soltanto presso nazionalità disgregate: sia come sia, gli armeni protestarono e l’Urss concesse nel 1922 autonomia amministrativa al Nagorno-Karabakh, ma sempre in seno all’Azerbaigian. Durante l’atmosfera di rimessa in discussione della Glasnost gorbacioviana degli anni Ottanta, il conflitto esplose. Alle manifestazioni armene folle di azeri risposero nel gennaio 1990, nella capitale Baku, con un terribile pogrom. Gli scontri divennero guerra con l’indipendenza dei due paesi nel 1991, e con la decisione azera di revocare l’autonomia amministrativa del Nagorno-Karabakh che, a sua volta, dichiarò la propria indipendenza come Repubblica dell’Artsakh, dall’antica denominazione di una parte di quelle vallate.

Un cessate il fuoco sanzionò nel 1994 uno status quo vittorioso per gli armeni, rendendo il Nagorno-Karabakh indipendente de facto (ma non de jure) e tollerando l’occupazione armena della striscia di terra che le due entità armene. Ciò provocò l’esodo di un milione di azeri, che denunciarono esecuzioni sommarie di civili da parte dei combattenti cristiani. Oggi l’Artsakh è abitato da 150.000 persone ed è riconosciuto come repubblica soltanto dall’Armenia e dalla piccola internazionale secessionista filo-russa formata da Transnistria, Abkhazia e Ossezia del sud, accomunate dal passato sovietico e da un’analoga mancanza di riconoscimento internazionale. Queste “repubbliche fantasma” sono accomunate anche dalla presenza di truppe russe sul loro territorio come deterrente alle pretese di stati che, con l’appoggio dell’Onu, vi reclamano sovranità: la Moldavia nel caso della Transnistria e la Georgia sull’Abkhazia e l’Ossezia. Non ci sono truppe russe nell’Artsakh, ma una base russa è nella vicina Armenia.

La questione del gas

I rapporti di forza tra Armenia e Azerbaigian sono sbilanciati sul piano economico: 45 mld di dollari di Pil annuo per l’Azerbaigian, 12 mld per l’Armenia. I casi acclarati di Covid-19 sono stati circa 50.000 in Armenia e 40.000 in Azerbaigian, nonostante quest’ultimo sia molto più popoloso. Ciononostante l’Azerbaigian ha patito l’impatto della pandemia per le ricadute sul mercato del petrolio, una delle sue maggiori risorse. La crisi pandemica ha prodotto un calo dei consensi per entrambi i presidenti, Armen Sargsyan e Ilham Aliyev, ma è soprattutto in Azerbaigian che le opposizioni hanno invaso le piazze nei mesi scorsi, alimentando slogan contro l’Artsakh e contro gli armeni. Entrambi gli stati hanno una relazione stretta con Mosca, che è sensibile agli sviluppi caucasici per ragioni economiche oltre che storiche.

I persistenti tentativi dell’Ue di differenziare le forniture di gas per i suoi 446 milioni di esigenti consumatori, infatti, preoccupano la Russia dai tempi dello sfaldamento dell’Urss, che separò l’area musulmana delle ex repubbliche sovietiche asiatiche dal mondo russo, aprendo la possibilità di differenziare un mercato prima unitario dell’energia. Questa evoluzione ha fatto della Turchia, inaspettatamente, un paese chiave per questo potenziale transito alternativo di gas, e quindi alleato fondamentale dell’Ue tanto quanto competitor strategico per la Russia. Si consideri che l’enorme striscia di Asia a sud della Russia che dallo Xinjiang cinese e dal Kazakhstan giunge all’Anatolia è inframmezzata da comunità linguistiche turcofone. Turchia, Azerbaigian, Kazakhstan e Kirchizistan sono da tempo riuniti nel Consiglio turco, sorta di lega araba dei paesi turcofoni, in cui in futuro potrebbero entrare anche Turkmenistan e Uzbekistan. Ciò che i movimenti nazionalisti panturchi di un secolo fa (che spinsero per il massacro degli armeni) volevano ottenere con la conquista (l’unificazione di un’immensa nazione turca) potrebbe essere ottenuto in questo secolo con mezzi economico-diplomatici.

Un gasdotto trans-caspico, finora mai realizzato per le pressioni russe sul Turkmenistan, potrebbe condurre in futuro le risorse kazache e turkmene in Azerbaigian. La prosecuzione caucasica e anatolica dell’infrastruttura verso l’Ue è già in via di completamento e rifornirà intanto gas azero all’Italia (e quindi l’Europa) attraverso Georgia, Turchia, Grecia e Albania. La sezione mediterranea di questo oleodotto è il Tap contro cui un movimento pugliese ha protestato negli anni scorsi per essere poi scaricato dal movimento 5stelle una volta giunto al governo. La sezione caucasica attraversa invece Azerbaigian, Georgia e Turchia tagliando non casualmente fuori dal tracciato l’Armenia e la Rep
ubblica dell’Artsakh. L’infrastruttura passa però vicino alle zone ribelli e, in Georgia, all’Abkhazia e all’Ossezia. La Russia può quindi, se vuole, impegnarsi a disturbare il completamento dell’infrastruttura lungo territori su cui è influente e che sono sensibili a conflitti nazionali. La Turchia può approfittare della complicità europea per affermare il suo ruolo e lucrare politicamente sulla componente razzista e religiosa del conflitto. Le foto di preti col Kalashnikov diffuse dal governo armeno in questi giorni, del resto, dimostrano che tutti sono d’accordo ad ammazzarsi e presentare il tutto come compiuto nel nome di Dio.

Jihad globale legalizzato

L’aspetto infrastrutturale della vicenda incrementa il potere turco sull’Asia e sull’Europa, ma quello ideologico-religioso si sposa con l’altra faccia geopolitica del piano neo-ottomano: quella rivolta al mondo islamico in generale, dal Nord Africa al Medio oriente, fino all’Indonesia e all’Afghanistan. Obiettivo è ripristinare la direzione turca nel mondo islamico, conciliando nazionalismo e religione in un’ottica tanto pericolosa quanto moderna. Mentre marginalizzava o reprimeva le diverse opzioni secolari in patria, Erdogan ha sostenuto dal 2011 le fazioni conservatrici nei paesi musulmani, spesso in rivolta o in guerra, al fine di scalzare vecchie classi dirigenti con altre a lui più vicine; salvo dove, come in Sudan, ha difeso il criminale di guerra Omar Al-Bashir perché alleato fedele della Fratellanza musulmana, il movimento islamista globale con cui il governo turco ha effettuato una strategica saldatura.

Questa ambiziosa operazione internazionale è non a caso condotta spalla a spalla con l’alleato Qatar, centro propulsore mediatico e finanziario dei Fratelli musulmani. Gruppi vicini ad Ankara e alla Fratellanza sono andati al governo in questo decennio in Marocco, Libia e Tunisia, in Egitto fino alla restaurazione di Al-Sisi, e in paesi come Mali, Sudan, Somalia, Giordania, Palestina, Siria, Indonesia e persino in Bosnia gruppi analoghi lottano per conservare, conquistare o restaurare un potere che devono in gran parte ad Erdogan e all’emiro qatariora Tamim al-Thani. Quest’ultimo, per intenderci, è anche il deus ex machina dell’imminente ritorno dei Taleban nelle istituzioni afghane grazie ai negoziati da lui organizzati, con la benedizione statunitense, a Doha.

Non solo in Afghanistan o in Libia la politica turco-qatariota è imparentata con torture, campi di concentramento e lapidazioni di donne, migranti e “infedeli”. Il popolo siriano è la principale vittima di questo progetto, con i Fratelli musulmani locali incoronati da Turchia e Qatar (con l’appoggio di Usa e paesi europei) come classe dirigente incaricata di sostituire il regime siriano nel 2012. Il ripiego per il fallimento di questo progetto sono le invasioni turche dal 2016 ad oggi, volte a combattere il progetto di autonomia secolare promosso dalle Forze siriane democratiche composte guarda caso da curdi, arabi, armeni e assiri. La Turchia ha imposto come “Governo ad interim” delle zone occupate il personale politico della Fratellanza, rinominato “Coalizione nazionale siriana” e ha armato decine di migliaia di jihadisti addestrati in Turchia. Cosa c’entra tutto questo, qualcuno potrebbe chiedersi, con la guerra tra Armenia e Azerbaigian? Proprio i jihadisti siriani affiliati alla “Coalizione siriana” jihadista di stanza nel cantone curdo-siriano di Afrin (occupato nel 2018), hanno dichiarato di essere in procinto di partire per l’Azerbaigian per combattere contro gli armeni.


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Migliaia di miliziani provenienti dagli stessi gruppi sono stati spediti in questi mesi da Erdogan in Libia, per difendere Al-Sarraj, anche lui prestanome della Fratellanza. Dal Mediterraneo al Caucaso aerei turchi sfrecciano per unificare una causa jihadista che dopo l’11 settembre sembrava poter essere portata avanti soltanto nell’ombra e nell’assoluta clandestinità, ma che invece ora colpisce con il supporto di droni della Nato gli avversari in Siria, Libia e Armenia. I nomi dei gruppi utilizzati in questi contesti fanno venire i brividi a chiunque conosca il conflitto siriano: Ahrar al-Sham, Sultan Murad, Brigate Al-Hamza; e questi gruppi hanno dominato e ucciso in Siria proprio grazie a un poco noto ruolo chiave dell’Azerbaigian. Nel 2017 un’inchiesta ha rivelato che la compagnia azera di bandiera, Silk Way Airlines, trasportava da anni in Siria (e non solo) armi per un valore di diversi miliardi di euro, sfruttando l’escamotage di voli diplomatici. Beneficiari erano proprio i jihadisti che combattevano i curdi o Assad e da cui, lo si ricordi, nel 2013-14 è emerso l’Isis che ha causato lo stillicidio di attentati in Europa del 2015-2017. L’Azerbaigian riceveva queste armi attraverso la Bulgaria e le distribuiva per conto di Turchia, Stati Uniti, Emirati, Arabia Saudita.

C’è qualcosa che non va nel mondo contemporaneo. L’Italia ha riconosciuto nel 2012 la “Coalizione nazionale siriana” come “Legittimo rappresentante delle aspirazioni del popolo siriano” nonostante essa governi ampie porzioni della Siria settentrionale imponendo la legge islamica con metodi brutali. Neanche da quando essa è diventata strumento delle attività internazionali sopra descritte i governi italiani, fino all’attuale, hanno ritenuto di ritirare tale riconoscimento.
Da un certo punto di vista non c’è contraddizione: Aliyev fornirà gas all’Italia attraverso il Tap e Al-Sarraj fornirà petrolio all’Eni, tra l’altro torturando, uccidendo e quindi «bloccando» i migranti che vorrebbero sbarcare a Lampedusa – sempre per mano di mercenari e jihadisti formalmente appartenenti a “bande”, perché qui nessuno si sporca le mani. È coerente quindi anche che l’Italia non riconosca la legittimità (innegabile sul piano nazionale) della Repubblica dell’Artsakh, come del resto dell’Amministrazione democratica della Siria del nord-est che, in questi anni, ha permesso ad assiri e armeni di riconquistare le chiese di Tell Tameer e Raqqa profanate dall’Isis. Entrambe queste realtà, infatti, sono nemiche dei legittimi rappresentanti del jihadismo internazionale; e tuttavia qualcosa non torna.
(1 ottobre 2020)




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