L’arte di Maria Lai, Penelope senza Ulisse

Mariasole Garacci

Allo Studio Stefania Miscetti di Roma è in mostra fino al 31 marzo il lavoro di Maria Lai, tra le più importanti artiste italiane del secondo Novecento, recentemente celebrata nella 57° Biennale di Venezia e a Documenta 14.

Un sentimento di insoddisfazione e di nostalgia, indefinibile e traditore, scorre a momenti in una vena nascosta dell’esistenza quotidiana: ha che fare con la rimossa opposizione tra aspirazione all’individualità e desiderio di appartenenza, che talvolta si sfoga in una sofferta pulsione al possesso e alla fusione totale; con il sospetto che le nostre passioni e le nostre attività siano dopotutto pretestuose; con la percezione che i raggruppamenti sociali, basati sugli affetti o su una similitudine di vedute e di intenti culturali o politici, siano come sfrangiati, labili, relativi. Alcuni lo chiamano, a un certo punto della loro vita, vuoto di senso. Mi domando se l’umana ansia di infinito e di assoluto (quell’infinito che invece diventa insopportabile al Dio distratto immaginato da Giuseppe Dessì e Maria Lai) non sia proprio ciò che da essi ci esclude, come dall’Eden o dal ventre materno, quando potremmo attraversare e lasciarci attraversare dalla relazione con l’altro, lasciarci legare e collegare come passati da ago e filo. Un filo che tiene e che unisce: ecco cosa cercare nella vertigine dei rapporti sociali, intellettuali e affettivi dissolti nell’incognita a cui diamo il nome di “società liquida”.

Un ago entra ed esce da qualcosa lasciandosi dietro un filo, segno del suo cammino che unisce luoghi e intenzioni. Più che saldare e incollare, che implica estraneità, il filo unisce come si unisce guardando o parlando. Niente ne è fisicamente trasformato. Le cose unite restano integralmente quello che erano, solo attraversate da un filo, traccia di un’intenzione, raggio laser, nota assoluta che fugge da un piccolissimo buco, percorso del pensiero. Un bussare alla porta, un entrare. Esplorazione, non presa di possesso, perché il filo si può tagliare e sfilare, e tutto, luoghi e traccia del pensiero, può tornare intatto. Affidato alla memoria, che è un altro filo, un altro cucire.

Tutto il lavoro di Maria Lai, la figura femminile più originale e importante dell’arte contemporanea in Italia, ci parla di relazione e di infinito, di comunità e di individuo; del cammino alla scoperta del proprio io, della riconciliazione con la propria ombra (nel senso junghiano del termine) e con l’altro. Una specificità femminile, quella di Lai, che non rappresenta l’istanza rivendicatrice di un’alterità conflittuale, ma l’emersione di un immaginario ancestrale, mitico, e di un’attitudine comunicativa divergente rispetto al linguaggio basato sul ragionamento logico che ha prevalso nella storia dell’uomo.

I libri cuciti di Maria Lai sono pagine di stoffa che recano una scrittura asemantica; ricordano i volumi senza parole sfogliati dai santi nei quadri del XVII secolo. Le righe del ricamo, il cui ritmo è ora rappreso in nodi di filo da cucito aggrovigliato, le parole, ora disteso nella linea di passaggio lasciata a vista, le pause del discorso o meglio sospensioni (è una scrittura che non cela alcun artificio formale), hanno l’andamento di una partitura musicale che fa pensare agli scampoli con le prove di punto croce sparsi intorno alle macchine da cucire delle massaie. Il cucito, un’attività umile e domestica tradizionalmente assegnata al genere femminile, è coniugato con il libro, emblema dell’autorità del testo e del sapere occidentale in cui la donna ha avuto un ruolo subalterno. La parola e la scrittura sono una forma del potere, detentore dell’interpretazione e delle letture impartite, che Maria Lai nega con questa ribellione gentile e silenziosa. In questi volumi di stoffa si tramanda un canto che resta chiuso al tentativo di decifrarlo per trarne il significato; che non si deve interpretare, perché l’interpretazione è una presa di possesso che esclude i sensi molteplici che un simbolo reca in sé. A volte non si riesce a sfogliarne le pagine, perché i fili che si ingarbugliano le tengono chiuse. Sono timidi, non enunciano: suggeriscono, evocano, bisbigliano.

Come la parola scritta, allo stesso modo viene contestato e disfatto anche il monumento, oggetto statico che tramanda una lettura storica ufficiale, con il conseguente sistema di ruoli e di relazioni (i vinti, i vincitori, i caduti), e che nel momento in cui insegna i valori da condividere genera su questi esclusione e disaccordo (si pensi al [mg1] ): in Legarsi alla montagna, la performance tenuta ad Ulassai nel settembre del 1981, la tipologia tradizionale del monumento ai caduti (con il suo portato semantico: mǒnĕo significa far ricordare ma anche avvertire, ammonire…) è dunque negata per un’azione effimera collettiva, in cui un nastro viene fatto passare legando nel segno dei rapporti reciproci la comunità e gli individui che la compongono, e questi alla montagna, come tra loro le rocce di Myōtoiwa nel Giappone shintoista: un elemento caratteristico della natura, familiare all’immaginario visivo degli abitanti di un luogo, viene legato con una corda per trattenere la presenza del dio, che è in fondo il genius loci della comunità stessa.

Dalla ricerca mitografica locale e dalla riflessione profonda che Maria Lai conduce sulla memoria collettiva radicata nel territorio di appartenenza, nascono operazioni che coinvolgono luogo, azione performativa e popolazione, happening collettivi, e originali interventi sul paesaggio antropizzato o naturale che pongono questa artista al livello della più famosa Land Art americana. Ma quella di Maria Lai è anche una patria dell’anima, punto di partenza per salpare verso il cielo e il mare: servono allora carte geografiche magiche per esplorarla, e portolani per orientarsi tra costellazioni e isole. Emerge in queste opere, le Geografie, un altro significato del cucito: legati e collegati sono anche i luoghi, oltre che gli individui, perché il nostro pianeta non è semplicemente un globo terracqueo, ma una sfera reticolare di connessioni vive, mobili, i cui nuclei propulsori sono i nostri sogni.

Pagine, la quarta mostra personale di Maria Lai presentata dallo Sudio Stefania Miscetti, offre una panoramica di circa quaranta opere su tavola e su carta, ceramiche, libri e teli cuciti, pani, realizzate tra gli anni Cinquanta e gli anni Duemila. Prezioso e imperdibile corredo sono i cinque documentari dedicati all’artista: Legare e collegare di Marilisa Piga e Nicoletta Nesler, Le fiabe di Maria Lai di Francesco Casu, Ansia di infinito di Clarita di Giovanni, e Maremuro. Appunti per un dialogo realmeraviglioso di Massimiliano Bomba e Gianluca Scarpellino. La mostra è realizzata grazie alla collaborazione con l’Archivio Maria Lai, ed è un importante appuntamento per conoscere e ricordare la produzione di questa donna straordinaria, mancata nel 2013, che recentemente è stata celebrata nella 57° Biennale di Venezia e nelle edizioni di Documenta 14 tenute ad Atene e a Kassel.

Pagine
Fino al 31 marzo 2018, da martedì a sabato 16.00 – 20.00
Studio Stefania Miscetti Roma, Via delle Mantellate 14
tel. 06 68805880 info@studiostef
aniamiscetti.com
www.studiostefaniamiscetti.com



(19 febbraio 2018)



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