Arte e intelligenza artificiale
Mariasole Garacci
Al MAXXI di Roma una mostra curata dal direttore del museo Bartolomeo Pietromarchi solleva una riflessione sulla simbiosi creativa tra uomo e macchina, in un viaggio attraverso le visioni di un nuovo inconscio tecnologico.
Gli interventi artistici offrono molteplici spunti di riflessione. Tutti, pur nella loro eterogeneità, pongono problemi epistemologici ed estetici molto complessi, riconducibili alla definizione della natura stessa dell’uomo. La capacità di apprendimento ed elaborazione dimostrata dalle macchine e, addirittura, di trasfigurazione dell’esperienza in immagini sintetiche che stimolano in chi le guarda -come già la cinepresa ai tempi di Walter Benjamin- un “inconscio ottico” paragonabile all’inconscio istintivo della psicanalisi, sposta infatti il campo delle considerazioni possibili ben al di là dei quesiti posti dal semplice mezzo espressivo, per quanto sfuggente e complesso. Mentre, in quest’ultimo caso, ci si potrebbe limitare al tema del linguaggio, riconducendolo alla volontà artistica umana ancorata al porto sicuro delle classiche categorie di matrice idealistica intuizione/espressione, senza sollevare ulteriori quesiti su questo punto nodale e inafferrabile, dinanzi ad alcune delle opere in mostra siamo costretti a mettere tutto in discussione alla luce di inquietanti domande: se la creatività, nella quale riconosciamo una specificità umana, lo sia davvero; da che cosa tragga origine; se questo sia, a sua volta, qualcosa di esclusivamente umano. Ciò potrebbe costringerci, d’altro canto, a guardare la creatività stessa e il suo prodotto, ciò che chiamiamo “arte”, da un punto di vista un po’ scomodo, già suggerito dal dadaismo: l’artisticità non risiede (più) nell’intuizione/espressione dell’artista, ma nel soggetto che, in virtù di un giudizio riflettente che alla macchina manca, può percepirla, riconoscerla come tale e attribuirla di senso. Se in un’era transumana potremo assegnare ancora alla nostra specie qualcosa di peculiare, insomma, sarà prendendo atto, come fa Yuval Harari, del venir meno della convergenza tradizionale tra coscienza e intelligenza, cedendo quest’ultima alla macchina. E prendendo atto che, allo stesso modo, anche intuizione e creazione stanno scindendosi.
Un esempio è quello offerto dalle tre opere di Trevor Paglen, Porn (Corpus: The Humans), Vampire (Corpus: Monsters of Capitalism) e A Man (Corpus: The Humans), dalla serie Adversarially Evolved Hallucination, prodotto del lavoro congiunto di due intelligenze artificiali. Com’è noto, una I.A. addestrata dall’uomo è in grado di riconoscere persone, cose, luoghi e attribuire loro una didascalia sulla base di immagini categorizzate fornite in un training set da cui ha tratto esperienza: per il suo progetto, Paglen ha proposto a una prima I.A. una serie di input presi da letteratura, filosofia, interpretazione dei sogni e saggezza popolare (ambiti, cioè, irrazionali) le cui figure essa è stata allenata a riconoscere e nominare; successivamente, le ha affrontato una seconda I.A. che ha imparato a crearne di nuove in base agli abbinamenti immagine/categoria dati: l’immaginario comune, potremmo dire, delle due intelligenze. Sono quest’ultime consapevoli di creare arte? Certamente no, cionondimeno producono un output apprezzabile dall’osservatore umano e che, altro tema suggerito dalla mostra romana, può essere ricondotto a quell’estetica dello strano e dell’inquietante indagata da Mark Fisher in The Weird and the Eerie. Queste immagini o, per spostarci su produzioni umane che raccolgono suggestioni dello scenario contemporaneo, gli assemblage semi-funzionali di un’artista come la svedese Anna Uddenberg (in mostra con una scultura intitolata Pockets Obese) ci ricordano infatti le visioni perturbanti di Francis Bacon, del Surrealismo, o di Hans Bellmer (quest’ultimo, non a caso, citato da un anime cult nel genere cyborg come Ghost in the Shell). Tuttavia, emerge un ulteriore livello di interrelazione tra macchina e uomo: se possiamo affermare che la tecnologia determina trasformazioni profonde e irreversibili nella società, nel pensiero, nei processi cognitivi, non si deve ignorare che questa ha successo perché risponde a movimenti, pulsioni e timori già presenti nella nostra psiche. Offrendo asilo anche alla parte più degenerata, inquietante, grottesca dell’inconscio collettivo. Lo dimostrano i risultati dei viaggi di scavo nel deep web e in Second Life compiuti da Jon Rafman, che compone i suoi video (in mostra Poor Magic e SHADOWBANNED: Punctured Sky) con immagini, suoni, voci e sequenze di videogames provenienti da un insospettabile mondo sommerso in cui si incontrano e riuniscono comunità di subculture nascoste alla normale vita quotidiana. L’influenza della componente umana sulla macchina è poi evidente nel caso di Tay, protagonista dell’installazione di Zach Blas e Jemima Wyman intitolata im here to learn so :)))))). Tay è un chatbot lanciato da Microsoft su Twitter il 23 marzo 2016 per apprendere in rete e mimare il linguaggio tipico di una diciannovenne americana, dismesso dopo meno di un giorno di vita perché dagli utenti del social aveva imparato a lanciare tweet violenti, razzisti, omofobici e misogini. È qui evidente l’analogia dei meccanismi di apprendimento della I.A. (pattern recognition, apofenia, imitazione) con alcuni elementi di psicologia cognitiva, primo fra tutti l’assorbimento di comportamenti dall’ambiente a cui si è esposti.
Dunque, la tecnologia non è solo un’estensione strumentale dell’essere umano, ma è con esso integralmente simbiotica. Questo in un momento, peraltro, in cui il dominio dell’algoritmo sui flussi di informazione, sulla sicurezza, sulla valorizzazione del capitale a discapito del lavoro, rende la realtà fattuale sempre meno materiale, ma non meno incisiva sulle nostre esistenze. È il tema di alcune tele di Cheyney Thompson, dalla serie Stochastic Process Painting, realizzate con un algoritmo impiegato per predire le oscillazioni dei prezzi in borsa: gli andamenti finanziari sono tradotti in gradazioni di colore secondo il sistema messo a punto da Albert Munsell all’inizio del XIX secolo, che, proprio come fanno oggi i dati informatici con la realtà, riduce la varietà dello spettro visibile a valori numerici disposti su coordinate dimensionali. Si fa luce così su un altro aspetto significativo, quello del nostro rapporto con la verità: il dato trattato dalla macchina non è che una porzione dell’informazione; non corrisponde al reale, ma ne è una sintesi rappresentativa. Eppure, in essa siamo portati ad avere fede.
Della relazione con una verità mediata tratta, in modo diverso, anche la trilogia Emissaries (2015-2017) di Ian Cheng, di cui è in mostra l’episodio Emissary Sunsets the Self (ESTS). È una serie in computer design di durata infinita i cui personaggi, I.A. a contatto l’una con l’altra in un ambiente virtuale con cui interagire, sviluppano il proprio comportamento mosse da schemi in continua evoluzione in base alle condizioni che si vengono a creare di volta in volta. Si osserva così l’evoluzione cognitiva delle I.A., e allo stesso tempo si pone la questione del determinismo a doppio senso nella nostra relazione con l’ambiente in cui siamo immersi. Uno scenario attuale, come ha dimostrato la tecnica pubblicitaria del micro-targeting e le sue pericolose applicazioni politiche: dalla frammentarietà varia e caotica della realtà viene estratto e prospettato nel nostro panorama individuale ciò che l’algoritmo ha riconosciuto come coerente con un profilo, a sua volta tracciato in base a un pregresso di consumi, ricerche, luoghi visitati. Così il mondo intorno a noi si configura a
immagine e somiglianza della personalità che l’algoritmo ci attribuisce, e viceversa la nostra concezione del mondo si limita alla selezione di informazioni somministrate.
Se l’arte prodotta da/con l’intelligenza artificiale dunque si caratterizza come meta-linguaggio, imponendo una riflessione filosofica sui temi qui suggeriti e sul processo creativo (insomma, come già il dadaismo, si comporta da critica d’arte mentre destruttura i meccanismi della conoscenza e distrugge il ruolo dell’artista), dall’altro costituisce un vero e proprio “genere”, con un’ampia narrativa che è poi quella tipica della fantascienza: il rapporto con l’altro da sé rappresentato dall’automa (figura peraltro antichissima, considerando che, prima dei vari cyborg e androidi moderni, per la tradizione talmudica Adamo è un Golem a cui viene infuso lo spirito); l’essenza dell’umano nel post-human; ecologia, politica e libertà civili nell’ambito di un accelerazionismo distopico rivelatore delle condizioni attuali. Ciò racconta il timore dell’uomo di essere superato dalla macchina o, più profondamente, divenire simile ad essa perdendo la volontà e l’autonomia. In definitiva, tornare egli stesso un automa d’argilla.
Una minaccia da sventare con l’arbitrio rivoluzionario della fantasia. Tornano in mente come un proposito e un augurio alcune parole del Manifesto della pittura industriale di Pinot Gallizio, del 1959: “Coll’automazione non ci sarà più lavoro, nel senso tradizionale, e non ci sarà più riposo, ma un tempo libero per libere energie antieconomiche. […] Oggi l’uomo è parte della macchina che ha creato e che gli è negata e ne è da essa dominato. Bisogna invertire questo non senso o non si avrà più creazione; bisogna dominare la macchina ed obbligarla al gesto unico, inutile, anti-economico, artistico, per creare una nuova società anti-economica ma poetica, magica, artistica”.
Fino al 24 marzo 2019
Low Form. Immaginari e visioni nell’era dell’Intelligenza Artificiale
a cura di Bartolomeo Pietromarchi.
MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo
Via Guido Reni 4/A
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