Arte, lavoro e coerenza
Mariasole Garacci
Soluzioni per una quotidianità insicura e un futuro incerto? “Ho sempre cercato di lavorare molto”. Intervista a Marinella Senatore, tra i trentenni italiani chiamati ad esporre alla Biennale di Bice Curiger, promessa del panorama artistico italiano (e internazionale) ed esponente di una generazione al bivio tra precarietà e passione.
Marinella Senatore è nata a Cava dei Tirreni nel 1977. Vive e lavora tra New York e Madrid, dove insegna in qualità di ricercatore associato presso il dipartimento di studi artistici dell’Università di Castilla-La Mancha. Numerosi i suoi lavori, le mostre personali e collettive, tra cui ricordiamo: All the things I need (2006, Roma, Fondazione Adriano Olivetti), Manuale per i viaggiatori (2007, Napoli, MADRE), Critica in Arte (2009, Ravenna, MAR), Italics (a cura di Francesco Bonami, Palazzo Grassi, Venezia). Quest’anno è stata tra i finalisti del Premio Furla 2011; al MACRO di Roma è, insieme con Guendalina Salini, ospite del quarto appuntamento della serie Roomates / Coinquilini. I video e le video-installazioni di Marinella sono incentrati sull’idea di una dimensione collettiva e partecipativa della creazione artistica, luogo sociale della comunicazione dell’esperienza e della memoria [nella foto: Marinella Senatore, Estman Radio Drama, 2011. Installazione: lettori CD, cuffie auricolari, legno, suono, tecnica mista].
Protagonisti di Estman Radio Drama, il lavoro con cui partecipi alla 54° Biennale di Venezia, sono gli operai della zona industriale di Marghera con le loro famiglie. Il processo del Petrolchimico – terminato con l’assoluzione nel 2001 dei 28 imputati dalle accuse di omicidio colposo, strage, disastro ambientale – è un episodio importantissimo e drammatico della recente storia italiana. Ritieni che la ricerca artistica trovi senso, o una necessaria vocazione, nell’assunzione di una responsabilità sociale, politica, storica?
Estman Radio Drama è uno dei due lavori presenti ad Illuminations: il video Nui Simu, scritto da un gruppo di minatori siciliani, prodotto dal Museo Riso di Palermo nell’estate del 2010, è installato all’Arsenale, mentre Estman Radio Drama nel padiglione centrale.
Si tratta di un progetto che ha coinvolto circa 500 persone tra operai, ex operai di Marghera e le loro famiglie, studenti delle universitá veneziane IUAV e Ca’ Foscari, gruppi di teatro, attori professionisti e non, radio universitarie, grandi network nazionali, emittenti locali e regionali, che dal 31 Maggio e per tutta la durata della 54.ª Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, trasmettono il radiodramma.
Negli ultimi anni, la dimensione sociopolitica sostanzia fortemente i miei lavori, soprattutto in termini di prassi; mi interessa il ruolo dell’artista come “attivatore” di alcuni processi, senza imposizioni di alcun genere, morali o falsamente educative. In questo senso cerco di mettere in atto uno scambio affettivo, che passa di storia in storia, di voce in voce. Il racconto stesso diventa scambio e, secondo modalità che inevitabilmente si modificano rispetto ai contesti, molto spesso si costruisce una situazione di laboratorio aperto, dove chi lavora impara qualcosa e lo porta con sé assieme al ricordo di essere stato sul set, per questo mi interessa ribaltare la posizione di chi guarda da passivo a partecipante. Ma non credo che l’unica via per gli artisti sia guardare alla nostra storia o avere un ruolo politicamente attivo e di denuncia. Degli operai, come del resto per i minatori siciliani per l’altro lavoro presentato in Biennale, mi interessava molto l’esperienza di aggregazione e di pensare collettivo.
Del resto la partecipazione e l’esperienza collettiva sono alla base di tutto il mio processo di lavoro, nel caso pure di Estman infatti, i 4 capitoli del radiodramma sono stati scritti in collaborazione con gli studenti dello IUAV e dell’Universitá di Ca’Foscari, che hanno inoltre lavorato sui materiali dell’Archivio operaio “Augusto Finzi”, conservato nel Centro di documentazione di storia locale di Marghera; il titolo Estman si riferisce ad un teatro ambulante che nei primi del Novecento viaggiava per il nord della Spagna, raggiungendo le comunitá minerarie; la versione inglese è stata interpretata dagli studenti della Royal Scottish Academy of Music and Drama di Glasgow, UK.
Come tutti gli artisti della mostra Illuminations, sei stata chiamata ad esprimerti sulle idee di comunità artistica e di nazione. Del resto, la Biennale di Venezia è strutturata per partecipazioni nazionali. Cosa significa per te partecipare al di fuori del Padiglione Italia? Cosa pensi del Padiglione Italia?
Credo che Bice Curiger e i suoi collaboratori abbiano lavorato secondo logiche di professionalità e rispetto di tutte le figure, trovo la mostra coerente e con contenuto. Per quanto riguarda il Padiglione Italia, non mi interessano operazioni del genere.
Pensando, ad esempio, al Padiglione USA e a quello egiziano – in cui era immediato il riferimento alla recente cronaca politica dei rispettivi stati – ritieni che i padiglioni nazionali valgano ad esprimere, in questa vetrina internazionale, l’identità di un paese, o un suo astratto Kunstwollen?
Non credo si possa generalizzare, e nemmeno credo ci possano essere delle regole; qualche volta succede, ma esprimere un’identità è complesso, e forse non aderente alla realtà. Io credo nei lavori con un contenuto, che cercano fili di comunicazione con lo spettatore, non autoreferenziali; amo molto i progetti che sento sinceri, siano o meno vicini alla mia ricerca.
Avere trent’anni in Italia: una generazione che deve inventare il proprio futuro su basi inesistenti, poche e labili sicurezze. Come artista, come giovane donna, cosa pensi della nostra situazione? Quali sono i tuoi timori, le tue speranze?
Insegno in due università in Spagna e viaggio tutto l’anno per i diversi progetti che preparo, di solito con istituzioni, come musei ed università, ma anche gallerie private; per la particolarità del mio lavoro, sono a contatto con professionisti di diverse discipline, studenti di tutte le età che cercano di costruirsi la propria identità lavorativa e non solo, e il senso di precarietà è sconfinato. A volte il quotidiano mi preoccupa e mi fa anche arrabbiare, ma non ho soluzioni e non posso che raccontare la mia esperienza: ho cercato sempre di lavorare molto, di essere coerente con me stessa e anche di fare sacrifici, rinunciando a molte cose in favore di altre.
(15 luglio 2011)
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