Artemisia Gentileschi, artista
Mariasole Garacci
Una mostra al Museo di Roma di Palazzo Braschi mette a confronto circa trenta opere di Artemisia Gentileschi con gli artisti del suo tempo, illustrando la qualità di questa artista al di là delle letture psicologiche e romanzate, e i rapporti di reciproco scambio e influenza con la pittura del XVII secolo a Roma, Napoli, Firenze, Genova e Venezia.
In una precoce Allegoria della Pittura del 1608-09, un piccolo olio su tavola di quercia oggi scomparso, forse rubato alla fine degli anni novanta, Artemisia Gentileschi, allora poco più che quindicenne, si autoritrasse in attenta osservazione del proprio volto, la bocca socchiusa, lo sguardo concentrato e un po’ svagato di quando, da sole e non viste, ci si guarda allo specchio o in due specchi a diverse angolazioni, per truccarsi o studiare i diversi profili della propria fisionomia (così deve necessariamente aver realizzato questo dipinto, e così facevano spesso i pittori, con due specchi); la testa leggermente inclinata, nelle guance e nella bocca una tenerezza ancora infantile tipica della prima adolescenza, e negli occhi quel bagliore come quando da ragazzi si apprende qualcosa.
A quel tempo l’apprendistato artistico di Artemisia presso il padre Orazio Gentileschi era già avanti, si può anzi supporre che la giovane, oltre ad aver preso in mano la conduzione della casa, dove la madre era venuta a mancare nel 1605, collaborasse attivamente alla bottega paterna. Benché il raggio d’azione di una ragazza a quel tempo fosse molto limitato e Artemisia non potesse uscire in esplorazione per Roma a studiare l’arte e le antichità, parte fondamentale dell’educazione di un artista, e per quanto riguarda lo studio del nudo dovesse forse accontentarsi di studiare il proprio, è da presumere che nella bottega del pittore toscano fosse disponibile il consueto assortimento di stampe di artisti famosi come Raimondi e Dürer: a quest’ultimo farebbe pensare la manina con le dita incurvate che regge il pennello, con l’anulare e il mignolo leggermente divaricati in visione frontale.
Chi è Artemisia Gentileschi, e perché è importante una mostra come quella ora ospitata al Museo di Roma di Palazzo Braschi, che mette in relazione la carriera di questa superba pittrice con l’arte del suo tempo? Al di là delle biografie romanzate e dell’interesse un po’ morboso intorno al famoso processo per stupro contro Agostino Tassi del 1612, non stupisce che la figura di questa donna artista eserciti tanto fascino: la sua esistenza offre una di quelle emozionanti occasioni in cui si possono afferrare, tra le pagine della storia “importante”, lembi di individualità personale, e riconoscere vicini esseri umani lontani nel tempo. Inoltre, le vicende di Artemisia danno voce a una parte di umanità, quella femminile, il cui lato più intimo e umano resta, nel secolo in cui lei visse, per lo più celato e che noi possiamo solo cercare di catturare negli sguardi e nelle pose delle bellezze silenziose che ci osservano dai quadri dei grandi artisti, paludate degli abiti di una santa, di una Madonna, di una Giuditta, o sublimate nel patetismo discinto di una Maddalena penitente o di una Cleopatra.
Del resto, anche volendo ridimensionare l’attrattiva del lato privato di quest’artista, è difficile non pensare che la sua voce Artemisia fu in grado, per una serie di circostanze, di farla sentire forte e chiara, e di farla giungere fino a noi grazie alla sua indipendenza, la sua intelligenza e la sua ambizione: seppe farlo da ragazzina durante lo squallido processo che le si rivolse contro (per una obiettiva comprensione del quale, anche nel contesto culturale e sociale del tempo, è utile leggere quanto pubblicato da Elizabeth Storr Cohen nel 1991 e nel 2000), da adulta nelle lettere appassionate al suo amante, il nobile fiorentino Francesco Maria Maringhi, e in generale durante la sua carriera condotta con talento e spregiudicatezza. Così, è davvero difficile astenersi dal ricordare, come manifestazione del carattere forte di Artemisia, l’amara ironia nelle parole da lei rivolte a Tassi rinfacciandogli la disattesa promessa di un matrimonio riparatore quando, durante il processo, le furono stretti attorno alle dita, preziosi strumenti del suo mestiere, i temibili sibilli, strumento di tortura usato per accertarsi della veridicità della testimonianza: “Questo è l’anello che tu mi dai et queste le promesse”.
Artemisia non fu la sola donna che “all’aco e al fuso preferì il toccalapis e il pennello”, per citare le parole usate da Giovan Battista Passeri nella biografia di un’altra artista coetanea di Artemisia e attiva a Roma, Caterina Ginnasi. Oltre quest’ultima vanno infatti ricordate altre artiste del XVII secolo, come Orsola Maddalena Caccia, Ginevra Cantofoli, Giovanna Garzoni, Elisabetta Sirani e Plautilla Bracci, quest’ultima caso straordinario di “architettrice” (così nelle fonti d’epoca) che progettò tra le altre cose la villa del Vascello. Ma, mentre non di tutte si può dire che seppero evadere dai generi più “femminili” della miniatura o della natura morta, Artemisia Gentileschi, prima donna ad entrare nell’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze, compete e dialoga da pari a pari con i pittori del suo tempo, a partire dal padre stesso.
Per questo motivo la mostra che si tiene ora fino al 7 maggio 2017 al Museo di Roma di Palazzo Braschi, sorvolando qualsiasi questione di genere, mette a confronto trenta quadri di Artemisia Gentileschi con circa sessanta opere dei pittori contemporanei con cui ebbe diretti rapporti di lavoro o a lei vicini, offrendo la preziosa possibilità di ammirare alcuni celebri capolavori di questa dotata e straordinaria figlia d’arte nel contesto del linguaggio, dei modi, delle soluzioni e dei temi che animavano la scena artistica del suo tempo, con cui Artemisia ebbe un rapporto certo non soltanto ricettivo ma di originale elaborazione personale e di mutuo scambio. Il nutrito elenco di opere riunite dai curatori (tra cui figura il prestigioso nome di Nicola Spinosa, seguito da Francesca Baldassarri e Judith Mann) conta, dunque, pittori più o meno originali ma significativi del loro tempo, prolificamente attivi nelle città in cui Artemisia lavorò, Roma, Firenze, Genova e Napoli: Giovanni Baglione, Antiveduto Gramatica, Ludovico Cardi detto il Cigoli, Giovan Francesco Guerrieri, Carlo Saraceni, Nicolas Reigner, Angelo Caroselli, Jusepe de Ribera, Bartolomeo Manfredi, Cristofano Allori, Battistello Caracciolo, Francesco Furini, Simon Vouet, Charles Mellin, Rutilio Manetti, Massimo Stanzione, Bernardo Cavallino e altri.
Poche le notizie sui primi anni di vita di Artemisia Gentileschi: possiamo ricostruire gli esordi della sua carriera attraverso ciò che sappiamo della formazione tipica di un giovane aspirante pittore dell’epoca, che iniziava il proprio apprendistato a dodici, tredici anni. Presumibilmente, nel 1607-08 la giovane doveva essere già in grado di prestare un prezioso aiuto a Orazio, se è
da tenere in considerazione il fatto che in quel periodo il pittore, una persona burbera e poco amichevole, iniziò a ricevere un crescente numero di commissioni senza ricorrere ad aiuti. Si può supporre che, nel regime di sospettosa reclusione cui, secondo la testimonianza del pittore Carlo Saraceni, Orazio teneva la figlia, Artemisia abbia avuto davvero scarse occasioni di lasciare le mura domestiche se non per andare in chiesa e partecipare a funzioni religiose.
Certo, le chiese di Roma erano una mostra pubblica di importanti opere d’arte commissionate da nobili, cardinali e congregazioni, e per consuetudini e circostanze familiari si può ipotizzare che la giovane abbia avuto accesso a San Giovanni in Laterano (dove fu cresimata), alle chiese di Santo Spirito in Sassia, Sant’Onofrio al Gianicolo, San Carlo ai Catinari, e forse Santa Maria del Popolo, San Luigi dei Francesi, San Giovanni dei Fiorentini, San Lorenzo in Lucina, San Paolo fuori le mura, San Pietro e Santa Maria Maggiore. Forse, poté raggiungere il padre quando questi lavorava nel Casino Borghese sul Quirinale, e in Santa Maria della Pace dove nel 1607 fu collocato un Battesimo di Cristo dipinto da Orazio. E’ di poco posteriore a questo periodo la Susanna e i vecchioni di Pommersfelden firmata e datata 1610, che attesta l’esordio artistico di Artemisia con una composizione essenziale, perfettamente riuscita benché ancora molto cauta, dominata dal luminoso e sensuale nudo quasi integrale di Susanna che doveva probabilmente attestare al pubblico la bravura della giovane artista nel ritrarre la figura umana. La soluzione formale del tema è da far risalire forse, tramite le indicazioni del padre, a una composizione di medesimo soggetto di Ludovico Carracci o al perduto modello eseguito nel 1600-02 da Caravaggio per Giovan Battista Marino. L’inclusione nella mostra a Palazzo Braschi di una Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne di Orazio Gentileschi del 1607-08, da confrontare con lo stesso soggetto rivisitato da Artemisia poco tempo dopo, permette inoltre di gettare luce su un probabile scambio artistico fra padre e figlia già in questi anni, i cui termini ben presto non saranno più di mero apprendistato.
Dopo lo scandalo del processo romano, Artemisia viene sposata in gran fretta al modesto pittore Pierantonio di Vincenzo Stiattesi e spedita a Firenze, dove era stata raccomandata da Orazio a Cristina di Lorena, madre del giovane granduca Cosimo II de’ Medici. Qui Artemisia visse otto anni importantissimi della sua carriera, alla corte di questo lungimirante mecenate interessato alla pittura di Battistello Caracciolo, Bartolomeo Manfredi, Gherardo delle Notti, Bartolomeo Cavarozzi e Theodor Rombouts, per citare solo alcuni dei nomi che figuravano nelle collezioni del granduca. Firenze era una città all’avanguardia nelle scienze e nel nuovo genere teatrale del “recitar cantando” e Artemisia, ai tempi del processo romano ancora adolescente e analfabeta, nella raffinata corte medicea sbocciò, si fece ammirare come cantante e liutista oltre che come pittrice, conobbe quello che sarebbe diventato il suo devoto e appassionato amante, il patrizio letterato e collezionista Francesco Maria Maringhi ed entrò inoltre in rapporti confidenziali e di stima reciproca con Galileo Galilei e con Michelangelo Buonarroti il Giovane, committente e protettore determinante per il successo fiorentino della giovane e talentuosa pittrice, che in casa di questi dipinse L’Inclinazione, una sognante figura femminile circondata dalla stella e la bussola care a Galilei. A Firenze Artemisia conobbe anche pittori fondamentali per lo sviluppo del suo stile, come Francesco Furini e Cristofano Allori, interpreti in pittura di quella “poetica degli affetti” strettamente legata all’interpretazione teatrale. Appartengono a questo periodo La conversione della Maddalena degli Uffizi (1616-17), il cui ricco costume di un serico giallo oro ricorda la veste della superba Giuditta con la testa di Oloferne del 1620 di Allori esposta in mostra, un intenso Autoritratto come suonatrice di liuto del 1617, e le due straordinarie versioni . Si tratta di due composizioni di grande impatto drammatico che richiamano direttamente la Giuditta e Oloferne di Caravaggio a Palazzo Barberini del 1602. Il letto di morbidi materassi impilati su cui il generale assiro si dimena scompostamente nell’ultimo spasmo, afferrando la veste dell’ancella Abra, è disfatto e intriso di sangue; Giuditta, le maniche arrotolate sulle braccia possenti in contrasto con la tenera sensualità del seno che quasi fuoriesce dalla veste, afferra e tira la testa di Oloferne per la barba mentre con l’altra mano imprime una spinta opposta con la spada, la cui guardia nella seconda versione affonda naturalisticamente nella carne dell’avambraccio dell’uomo, mentre schizzi di sangue le sprizzano sul volto contratto dallo sforzo e dal disgusto.
Nel 1621 lo stile di vita lussuoso condotto a Firenze da Artemisia, una serie infinita di debiti contratti con il granduca ma anche con artigiani e professionisti e i rapporti ormai compromessi con l’Accademia, costrinsero l’artista ad abbandonare la città con suo marito e tornare a Roma, con l’aiuto economico del Maringhi. A quest’epoca Artemisia aveva ventotto anni, era già madre di cinque figli, ed era ormai una professionista riconosciuta con un’esperienza artistica consolidata. In questo periodo realizzò una nuova versione di Susanna e i vecchioni (1622) molto diversa dal quadro d’esordio dipinto più di dieci anni prima, in cui deliberatamente parlava emiliano allo scopo di lusingare il gusto bolognese dell’importante committente dell’opera, il cardinale Ludovico Ludovisi, nipote di Gregorio XV (1621-23). Se nella versione giovanile l’interpretazione del tema era stata psicologica, incentrata sulla reazione di rifiuto, terrore e vergogna della donna insidiata, qui l’artista traduce più fedelmente il passo del libro di Daniele in cui Susanna, pressata dalle minacce dei due vecchi molestatori, scoppia a piangere con gli occhi rivolti al cielo rifiutando il ricatto, offrendo così un’allegoria dell’anima in pericolo mortale che si affida fiduciosa al Signore. E’ evidente, nel cielo e nei brani di natura, nell’impostazione della scena e nel tipo fisico di Susanna, l’adattamento di Artemisia allo stile di Guercino, attivo a Roma in quegli anni, e alla pittura ricca ed esuberante del maestro di Cento.
Tra il 1620 e il 1627, gli anni del suo secondo periodo romano, Artemisia interagì con i pittori attivi nella Città Eterna, muovendosi tra i due poli stilistici che in quel momento andavano per la maggiore, un caravaggismo mediato anche dal luminismo di pittori come Gerrit van Hontorst e il pittoricismo bolognese: tra gli utili confronti forniti dalla mostra di Palazzo Braschi, sono presenti Giuseppe e la moglie di Putifarre (1620 circa) e Giaele e Sisara (1620 circa) di Giuseppe Vermiglio, Giuditta con la testa di Oloferne (1626) di Domenico Fiasella, Sibilla (1618-21) di Orazio Gentileschi, Salomé con la testa del Battista (1627-28) di Charles Mellin, David con la testa di Golia (1625-26) di Nicol
as Reigner. E’ di questo periodo un Ritratto di Artemisia Gentileschi eseguito da Simon Vouet nel 1622: il fatto che fosse di proprietà di Cassiano del Pozzo lascia capire quanto la pittrice fosse apprezzata da uno dei più importanti collezionisti del tempo.
Dopo una misteriosa parentesi a Venezia tra il 1626 e il 1629, nel 1630 Artemisia si trasferì a Napoli su invito del viceré il duca di Alcalà, già suo committente e collezionista a Roma. Il periodo napoletano è trattato in un interessante saggio nel catalogo Skira da Nicola Spinosa, curatore della sezione napoletana della mostra, che rende conto dei contatti e degli scambi di Artemisia con la situazione locale, tra il naturalismo post-caravaggesco di Battistello Caracciolo e Jusepe de Ribera e l’interesse per la sensuosa pittura emiliana in quel momento manifestato dalla committenza (si pensi che nel 1631 Domenichino lavorava, tra molti ostacoli e disagi, alla decorazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro). A Napoli Artemisia arrivò dopo aver compiuto a Roma un’apertura verso un certo pittoricismo sensuoso che nella città partenopea trovò reciproco riscontro nei citati Caracciolo e Ribera, ma anche in Francesco Guarino, Massimo Stanzione, Paolo Finoglio, Bernardo Cavallino. Sono emblematici di questo momento l’Annunciazione (1630) del Museo Nazionale di Capodimonte, la Nascita di san Giovanni Battista (1635 circa) del Prado, l’Adorazione dei Magi (1635-37) e San Gennaro placa l’orso (1635-37) parte di un importante ciclo per il Duomo di Pozzuoli commissionato dal vescovo Martìn de Leoòn y Càrdenas, che nella scelta degli artisti si era fatto guidare dal viceré di Napoli il conte di Monterrey, dove lavorarono anche Lanfranco, Ribera, Finoglio, Stanzione e Beltrano.
A questo punto della sua carriera, il lato privato della vita di Artemisia torna a farci interrogare intorno alle dinamiche affettive e psicologiche che si addensavano intorno alla pittrice: come si è accennato, a Napoli riceveva committenze da mecenati illustri, tra cui Filippo IV di Spagna, sebbene le preoccupazioni economiche fossero sempre pressanti soprattutto in vista del matrimonio della figlia maggiore. Già almeno dal 1735 Carlo I Stuart richiedeva la sua presenza a Londra, dove Orazio Gentileschi e i tre figli maschi risiedevano stabilmente dal 1626 al servizio del re e della regina. Le circostanze che determinarono il trasferimento di Artemisia da Napoli a Londra, città raggiunta tra il 1638 e il 1639, sono in parte ancora misteriose e indagate nel catalogo della mostra romana da Cristina Terzaghi. Quel che sembra emergere dai documenti disponibili è che la presenza di Artemisia nella capitale britannica rappresentasse un’ancora di salvezza per lo scorbutico padre, dalla cui casa la donna era uscita ormai vent’anni prima nelle circostanze che sappiamo, essendo questi ormai troppo anziano per poter far fronte dignitosamente alle committenze della casa reale con l’aiuto dei soli figli maschi, artisti mediocri.
Dunque si ipotizza che Artemisia, poco entusiasta di questa trasferta (come emerge dal fatto che già nel dicembre del 1639 scrivesse a Francesco I d’Este per procacciarsi un posto alla sua corte) avrebbe acconsentito a questo impegnativo viaggio per motivi prettamente familiari, per venire in aiuto del padre. A Londra lavorò a fianco di Orazio nella decorazione del soffitto della Queen’s House di Greenwich per la regina Henrietta Maria, una celebrazione del buon governo di Carlo I Stuart patrono delle arti (il sovrano finirà poi decapitato il 30 gennaio del 1649 nel corso della rivoluzione capeggiata da Oliver Cromwell) il cui repertorio di immagini è la celebre Iconologia di Cesare Ripa. Del soggiorno londinese di Artemisia resta, tra gli altri lavori, un’Allegoria della Pittura (1638-39) proprietà del Royal Collection Trust, altro toccante autoritratto dell’artista che a distanza di trent’anni dal primo del 1608-09 torna a raffigurarsi negli stessi panni.
Ritroviamo qui il volto, i capelli bruni, l’avvenenza, la passione di Artemisia Gentileschi, che visse nel lusso e nell’ammirazione dei contemporanei, ma anche tra i debiti e le preoccupazioni materiali e che fu addirittura, a Firenze, accusata del furto di colori e materiali da pittura. Una ragazzina intelligente cresciuta nell’ambiente anticonformista ma anche pragmatico fino al cinismo e, talvolta, meschino degli artisti, che partì da Roma adolescente e analfabeta, con un grande talento nelle mani e dotata di ambizione e senso pratico, e che condusse una carriera di tutto rispetto in un mondo maschile. Mai affidandosi alla specificità del suo essere donna “pittora”, fenomeno oppure ornamento curioso per una corte, ma alle sue capacità artistiche e di autopromozione. Un’artista anche spregiudicata, che seppe piegare il suo stile e la sua tecnica pittorica all’opportunità del momento, prensile e ricettiva, e comunque sempre restando se stessa e a un livello degno del suo nome. Forse, l’aspetto della sua vicenda personale che conta più di tutti mettere a dialogo con la sua carriera artistica è rivelato proprio dai due autoritratti sotto le spoglie di Allegoria della Pittura, dipinti a distanza di trent’anni l’uno dall’altro, con in mezzo tutta questa vita piena di lavoro, studio, figli, passioni, grane da risolvere: come si vedeva Artemisia? Come rappresentava se stessa ai suoi occhi e ai nostri? Intenta alla pittura con i pennelli e la tavolozza dei colori in mano, la bocca carnosa socchiusa, il respiro sospeso in concentrazione, l’occhio vivo e acuto, tutta presa nell’esercizio intellettuale e pratico che era la sua professione, la sua passione e la sua libertà.
Artemisia Gentileschi e il suo tempo
Fino al 7 maggio 2017
Roma, Palazzo Braschi – ingresso da Piazza Navona, 2 e da Piazza San Pantaleo, 10
Orario: dal martedì alla domenica, ore 10.00-19.00. La biglietteria chiude un’ora prima
24 e 31 dicembre ore 10.00-14.00 – giorni di chiusura lunedì, 25 dicembre, 1 gennaio, 1 maggio
Biglietto “solo mostra”: intero €11, ridotto €9 Per riduzioni e gratuità, informazioni su visite guidate e audioguide e per prenotazioni visitare la pagina web della mostra o telefonare al numero 060608
Catalogo Artemisia e il suo tempo a cura di Nicola Spinosa. Milano, Skira 2016, pp. 312, 150 ill. b/n e col., cm 22×28 con saggi di Francesca Baldassarri, Maria Beatrice De Ruggieri, Judith Mann, Jesse Locker, Anna Orlando, Nicola Spinosa, Cristina Terzaghi, bibliografia delle schede ed esposizioni a cura di Virginia Comoletti
www.museodiroma.it www.museiincomuneroma.it @museiincomune #ArtemisiaRoma
(21 dicembre 2016)
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